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22/07/2011
Al via la sperimentazione per un “vaccino” contro
l’Alzheimer |
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Nuova conferma dell’eccellenza
del Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale S.
Agostino Estense di Baggiovara. La struttura diretta
dal professor Paolo Nichelli è infatti stata
inserita tra i quattro centri italiani, 64 in tutto
il mondo, che svilupperanno uno studio per mettere a
punto una cura di prevenzione all’Alzheimer. Una
strada sino a ora mai esplorata per contrastare una
malattia che oggi solo in Italia colpisce circa 700
mila persone. |
«L’obiettivo
– spiega il professor Paolo Nichelli – è
superare l’attuale trattamento, di tipo sintomatico,
e intervenire su soggetti solo a rischio di sviluppare
la malattia. Quando si parla della ricerca che ci vedrà
coinvolti, anche se impropriamente, si fa riferimento
a uno studio volto a individuare un vaccino. In modo
scientificamente più preciso, si vogliono mettere
a punto farmaci in grado di agire nella cosiddetta fase
prodromica, ossia nel periodo in cui il processo patologico
è latente e la dotazione neuronale del paziente
ancora relativamente integra».
Lo studio non verrà effettuato
su persone malate, bensì ad alto rischio di sviluppare
la malattia. Complessivamente durerà 2 anni e
5 mesi e prevede la somministrazione mensile del farmaco
Gantanerumab attraverso iniezioni sottocutanee su tre
gruppi di pazienti. Applicando i rigorosi protocolli
previsti in questi casi, a un primo gruppo verranno
iniettati 105 milligrammi di farmaco, a un secondo 225,
mentre un terzo gruppo riceverà un placebo (ossia
nessun farmaco). In questi giorni, in particolare, è
in corso la fase di screening, ossia di reclutamento
dei pazienti. Potenziali partecipanti saranno persone
che già oggi sono seguite in ambulatorio.
Giuseppe Caroli, direttore generale
dell’azienda Usl di Modena, ha aggiunto che: «La
scelta di inserire la Clinica Neurologica dell’Ospedale
di Baggiovara in un progetto così importante,
conferma la qualità dei nostri professionisti
e la capacità di unire la ricerca all’attività
clinica. Ulteriore motivo di soddisfazione è
il coinvolgimento di giovani ricercatori tra i quali
spicca la dottoressa Manuela Tondelli, che ha avuto
la possibilità di crescere all’interno
della nostra struttura».
fonte Gazzetta di Modena
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19/10/2010
ALZHEIMER: VITAMINA B12 NE RALLENTA LO SVILUPPO |
(AGI) - Washington, 19 ott. - Alti livelli nel sangue di vitamina
B12 potrebbero proteggere dall'Alzheimer. Lo suggerisce uno
studio svedese pubblicato dalla rivista 'Neurology', condotto
su 271 pazienti di eta' compresa tra i 65 e i 79 anni, tutti
sani, e seguiti per 7 anni. In questo lasso di tempo a 17 persone
soggetti e' stata diagnosticata la malattia, e dalle analisi
del loro sangue e' emerso che il livello di vitamina B12 era
piu' basso degli altri, mentre erano alti i livelli di omocisteina,
una molecola gia' legata sia alla demenza sia ai problemi cardiaci,
che puo' essere 'abbattuta' dalla vitamina. "Anche se su
pochi casi", scrivono gli autori, "questo studio incentiva
ricerche piu' ampie su possibili terapie a base di vitamine
B, e sulla loro efficacia nel rallentare l'Alzheimer e altre
forme di demenza".
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06/10/2010
UN BASSO LIVELLO E' LEGATO ALL'INSORGENZA DELLA MALATTIA |
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(AGI) - Washington,
6 ott. - Un basso livello di testosterone e'
legato all'insorgenza dell'Alzheimer. Lo ha
dimostrato uno studio condotto dall'universita' di Hong
Kong, che suggerisce che questo ormone potrebbe un giorno
essere usato per combattere la malattia. I ricercatori
hanno studiato 153 cinesi di almeno 55 anni non affetti
dalla patologia, di cui 47 avevano leggeri problemi
cognitivi e piccole perdite di memoria. Dopo un anno,
10 di questi hanno sviluppato l'Alzheimer, e dalle analisi
del sangue e' risultato un basso livello di testosterone,
un elevato livello della proteina 'ApoE 4', legata alla
malattia, e un'alta pressione. "E' un risultato
importante, perche' mostra che il livello di testosterone
e' uno dei fattori di rischio - ha commentato John Morley
dell'Universita' di Saint Louis, che ha partecipato
allo studio pubblicato dal Journal of Alzheimer's Disease
- il prossimo passo sara' studiare su larga scala l'uso
del testosterone per prevenire l'insorgenza della malattia".
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24/08/2010
Una proteina prodotta dall'artrite combatte l'Alzheimer |
Una proteina usata per combattere l’infiammazione causata
dall’artrite reumatoide è risultata efficace per
ridurre i sintomi dell’Alzheimer, in particolare la perdita
di memoria che è una delle conseguenze più gravi
di questa malattia neuro-degenerativa. Lo hanno scoperto ricercatori
della University of South Florida, il cui studio è stato
pubblicato dal Journal of Alzheimer’s Research.
Gli scienziati hanno trattato cavie da laboratorio
che manifestavano problemi di memoria simili a quelli causati
dall’Alzheimer con la proteina chiamata Gm-Csf, che è
un fattore di crescita stimolante le colonie di macrofagi, componenti
del sistema immunitario che si occupano di eliminare agenti
patogeni e sostanze nocive. Nella terapia dell’artrite,
eliminano le sostanze che provocano i gonfiori dovuti all’infiammazione,
ma si sono dimostrati efficaci anche nell’eliminare le
“placche beta amiloidi” del cervello, uno dei fattori
che provocano i sintomi dell’Alzheimer.
Al termine dello studio, durato 20 giorni,
le cavie a cui era stata somministrata la proteina non presentavano
più sintomi, e le placche si erano ridotte di oltre il
50 per cento. Anche il gruppo di controllo di cavie sane a cui
era stata somministrata la Gm-Csf ha mostrato capacità
cognitive migliorate. I ricercatori sono si sono meravigliati,
in particolare, della rapidità con il quale il farmaco
aveva prodotto un annullamento della sintomatologia, ovvero
soltanto venti giorni.
«Il prossimo passo», ha detto uno
degli autori dello studio, il professor Huntington Potter, «sarà
testare la proteina sui pazienti come potenziale trattamento
per l’Alzheimer». La sostanza è già
prodotta sinteticamente, ed è disponibile in commercio
col nome di Leukine. Viene usata anche nella terapia di alcuni
tumori, come il melanoma.
fonte: |
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12/08/2010
USA, un test infallibile in grado di identificare l'Alzheimer |
(AGI/WSI) New York ? Un test infallibile in
grado di identificare l'Alzheimer nelle persone che soffrono
di perdita di memoria. A questo sono arrivate le ricerche di
un team di scienziati Usa. Lo scrive il NY Times. Analizzando
i fluidi cerebrospinali il sistema garantisce una precisione
del 100%. In precedenza l'unico modo per scoprire la presenza
del morbo, in grado di svilupparsi 10 anni prima che i primi
sintomi si palesino, era tramite autopsia. -
By GINA KOLATA
Published: August 9, 2010
Researchers report that a spinal fluid test
can be 100 percent accurate in identifying patients with significant
memory loss who are on their way to developing Alzheimer’s
disease.
Although there has been increasing evidence
of the value of this and other tests in finding signs of Alzheimer’s,
the study, which will appear Tuesday in the Archives of Neurology,
shows how accurate they can be. The new result is one of a number
of remarkable recent findings about Alzheimer’s.
After decades when nothing much seemed to be
happening, when this progressive brain disease seemed untreatable
and when its diagnosis could be confirmed only at autopsy, the
field has suddenly woken up.
Alzheimer’s, medical experts now agree,
starts a decade or more before people have symptoms. And by
the time there are symptoms, it may be too late to save the
brain. So the hope is to find good ways to identify people who
are getting the disease, and use those people as subjects in
studies to see how long it takes for symptoms to occur and in
studies of drugs that may slow or stop the disease.
Researchers are finding simple and accurate
ways to detect Alzheimer’s long before there are definite
symptoms. In addition to spinal fluid tests they also have new
PET scans of the brain that show the telltale amyloid plaques
that are a unique feature of the disease. And they are testing
hundreds of new drugs that, they hope, might change the course
of the relentless brain cell death that robs people of their
memories and abilities to think and reason.
“This is what everyone is looking for,
the bull’s-eye of perfect predictive accuracy,”
Dr. Steven DeKosky, dean of the University of Virginia medical
school, who is not connected to the newresearch, said about
the spinal tap study.
Dr. John Morris, a professor of neurology at
Washington University, said the new study “establishes
that there is a signature of Alzheimer’s and that it means
something. It is very powerful.”
A lot of work lies ahead, researchers say —
making sure the tests are reliable if they are used in doctors’
offices, making sure the research findings hold up in real-life
situations, getting doctors and patients comfortable with the
notion of spinal taps, the method used to get spinal fluid.
But they see a bright future.
Although the latest PET scans for Alzheimer’s
are not commercially available, the spinal fluid tests are.
So the new results also give rise to a difficult
question: Should doctors offer, or patients accept,commercially
available spinal tap tests to find a disease that is yet untreatable?
In the research studies, patients are often not told they may
have the disease, but in practice in the real world, many may
be told.
Some medical experts say it should be up to
doctors and their patients. Others say doctors should refrain
from using the spinal fluid test in their practices. They note
that it is not reliable enough — results can vary by lab
— and has been studied only in research settings where
patients are carefully selected to have no other conditions,
like strokes or depression, that could affect their memories.
“This is literally on the cutting edge
of where the field is,” Dr. DeKosky said. “The field
is moving fast. You can get a test that is approved by the F.D.A.,
and cutting edge doctors will use it.”But, said Dr. John
Trojanowski, a University of Pennsylvania researcher and senior
author of the paper, given that people can get the test now,
“How early do you want to label people?”
Some, like Dr. John Growdon, a neurology professor
at Massachusetts General Hospital who wrote an editorial accompanying
the paper, said that decision was up to doctors and their patients.
Sometimes patients with severe memory loss
do not have the disease. Doctors might want to use the test
in cases where they want to be sure of the diagnosis. And they
might want to offer the test to people with milder symptoms
who want to know whether they are developing the devastating
brain disease.
One drawback, though, is that spinal fluid
is obtained with a spinal tap, and that procedure, with its
reputation for pain and headaches, makes most doctors and many
patients nervous. The procedureinvolves putting a needle in
the spinal space and withdrawing a small amount of fluid.
Dr. Growdon and others say spinal taps are
safe and not particularly painful for most people. But, he said,
there needs to be an education campaign to make people feel
more comfortable about having them. He suggested that, because
most family doctors and internists are not experienced with
the test, there could be special spinal tap centers where they
could send patients.
The new study included more than 300 patients
in their 70s, 114 with normal memories, 200 with memory problems
and 102 with Alzheimer’s disease. Their spinal fluid was
analyzed for amyloid beta, a protein fragment that forms plaques
in the brain, and for tau, a protein that accumulates in dead
and dying nerve cells in the brain. To avoid bias, the researchers
analyzing the data did not know anything about the clinical
status of the subjects. Also, the subjects were not told what
thetests showed.
Nearly every person with Alzheimer’s
had the characteristic spinal fluid protein levels. Nearly three
quarters of people with mild cognitive impairment, a memory
impediment that can precede Alzheimer’s, had Alzheimer’s-like
spinal fluid proteins. And every one of those patients with
the proteins developed Alzheimer’s within five years.
And about a third of people with normal memories had spinal
fluid indicating Alzheimer’s. Researchers suspect that
those people will develop memory problems.
The prevailing hypothesis about Alzheimer’s
says that amyloid and tau accumulation are necessary for the
disease and that stopping the proteins could stop the disease.
But it is not yet known what happens when these proteins accumulate
in the brains of people with normal memories. Theymight be a
risk factor like high cholesterol levels. Many people with high
cholesterol levels never have heart attacks. Or it might mean
that Alzheimer’s has already started and if the person
lives long enough he or she will with absolute certainty get
symptoms like memory loss.
Many, like Dr. DeKosky, believe that when PET
scans for amyloid become available, they will be used instead
of spinal taps, in part because doctors and patients are more
comfortable with brain scans.
And when — researchers optimistically
are saying “when” these days — drugs are shown
to slow or prevent the disease, the thought is that people will
start having brain scans or spinal taps for Alzheimer’s
as routinely as they might have colonoscopies or mammograms
today.
For now, Dr. DeKosky said, the days when Alzheimer’s
could be confirmed only at autopsy are almost over. And the
time when Alzheimer’s could be detected only after most
of the brain damage was done seem to be ending, too.
“The new biomarkers in CSF have made
the difference,” Dr. DeKosky said, referring to cerebral
spinal fluid. “This confirms their accuracy in a very
big way.”
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06/07/2010
Alzheimer, King's College di Londra scopre nuovo biomarcatore
nel sangue |
Un nuovo test sul sangue per predire lo sviluppo dell'Alzheimer
già 10 anni prima della manifestazione dei sintomi di
demenza potrà essere presto messo a punto sulla base
dei risultati di uno studio dell'Istituto di Psichiatria del
King's College di Londra (KCL) pubblicato oggi su Archives of
General Psychiatry.
E' l'apolipoproteina J ("clusterin")
il potenziale biomarcatore, facilmente misurabile con esami
di laboratorio su un prelievo di sangue, indagato dai ricercatori
britannici, che hanno messo in relazione alti livelli di questa
proteina con l'atrofia della corteccia entorinale (una regione
dell'ippocampo connessa diffusamente con le altre aree del cervello
e implicata nei processi mnestici), i deficit di memoria caratteristici
della malattia e la sua rapida progressione.
"I risultati della nostra ricerca, che
ha analizzato i dati dello studio multicentrico europeo AddNeuroMed
e del Baltimore Longitudinal Study of Aging, al momento mettono
solo in evidenza il ruolo dell'apolipoproteina J nella patogenesi
dell'Alzheimer, ma ci auguriamo che nuovi studi confermeranno
questa proteina quale vero e proprio biomarker della malattia,
in modo da poterlo utilizzare quale test per la sua diagnosi
precoce", ha dichiarato oggi in una nota stampa Simon Lovestone
del britannico Alzheimer's Research Trust (ART), ente che ha
finanziato in parte la ricerca.
"Il principale obiettivo della ricerca
attuale sull'Alzheimer è quello di sviluppare un test
poco costoso e facilmente eseguibile per identificare e monitorare
la progressione di questa devastante malattia e l'apolipoproteina
J (clusterin) può rappresentare il marcatore del sangue
capace di predirne la patologia e i sintomi, già 10 anni
prima della loro manifestazione", ha dichiarato oggi al
Daily Mail Madhav Thambisetty, ricercatore del King's College
e primo autore dello studio.
fonte:
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20/06/2010
[...] nel nervo ottico c'è una spia che prevede l'Alzheimer.
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Il Parkinson si scopre dalla voce
E nel nervo ottico c'è una spia che
prevede l'Alzheimer. Nuove ipotesi per individuare
precocemente alcune
gravi malattie neurologiche
MILANO - Forse gravi malattie neurodegenerative come
Parkinson e Alzheimer potranno essere previste. L’Alzheimer,
con una decina d'anni d'anticipo, semplicemente studiando
gli occhi dei pazienti. La malattia di Parkinson,
anni prima che si manifesti, individuando sottili
alterazioni della voce non percepibili dall’orecchio
umano. La scoperta che riguarda L’Alzheimer
è stata presentata pochi giorni fa al congresso
della Società di medicina nucleare, a Salt
Lake City (USA), da ricercatori australiani diretti
da Christopher Rowe dell'Austin Hospital di Victoria.
Per tenere sotto controllo
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il sistema nervoso,
il nervo ottico è la struttura più accessibile:
esaminando con la PET (tomografia a positroni) quello
di oltre 200 anziani, sani e malati, i ricercatori hanno
scoperto che fra le sue fibre si accumulano ammassi
di proteina beta-amiloide molto prima che questi infarciscano
il cervello, dove costituiscono il segno inequivocabile
dell'Alzheimer: la loro presenza nel nervo ottico aumenterebbe
di 13 volte il rischio di sviluppare la malattia. «Finora
le placche di beta amiloide sono individuate nel cervello
quando il processo neurodegenerativo è ormai
in fase avanzata — commenta Carlo Caltagirone,
direttore scientifico dell’Istituto Santa Lucia
di Roma — e le terapie cercano di evitare che
queste formazioni si accrescano, non essendo ancora
possibile farle regredire. Sapere in anticipo quando
stanno iniziando a formarsi offre una chance insperata:
avviare il trattamento prima che si siano instaurati
danni irreversibili e scegliere anche il momento ottimale
per farlo, mentre finora gli interventi terapeutici,
sia quelli sintomatici sia quelli destinati a modificare
l'andamento della malattia, sono inevitabilmente tardivi».
PARKINSON E VOCE - E un’opportunità
simile arriva anche il Parkinson: le alterazioni della
voce appena scoperte si svilupperebbero anni prima del
manifestarsi della patologia e non vanno confuse con
la disartria, difficoltà nell’articolare
le parole, cui vanno incontro i malati nelle fasi avanzate.
Per accorgersi delle alterazioni precoci c'è
voluto uno speciale computer capace di analizzare la
voce e l'articolazione dei suoni, messo a punto dai
ricercatori del Dipartimento di scienze della comunicazione
dell'Università israeliana di Haifa, diretti
da Shimon Sapir. La scoperta è stata appena pubblicata
sul Journal of Speech, Language, and Hearing Research
e rappresenta un cambio di marcia nella diagnosi precoce,
perché si tratta di una tecnica non invasiva,
ripetibile, accurata e poco costosa, che richiede al
paziente solo di dire un paio di frasi davanti a un
microfono. Se l'analisi acustica identifica le alterazioni,
rilevabili soprattutto nelle vocali, si può iniziare
un trattamento preventivo molto prima, un’opportunità
che fa guadagnare anni e qualità di vita evitando,
secondo gli autori dello studio, che il 60% dei neuroni
deputati al controllo dei movimenti sia distrutto dalla
malattia. L'analisi del linguaggio potrebbe presto entrare
a far parte della batteria di test utilizzati per i
segni e sintomi non motori del Parkinson, come la microcalligrafia,
le alterazioni cognitive o quelle olfattive, che si
sono dimostrati importanti quanto quelli classici della
rigidità muscolare, dei tremori, del rallentamento,
o della perdita di equilibrio. Peraltro, l’analisi
della voce ha costi irrisori rispetto ai metodi diagnostici
di imaging, soprattutto considerandone il possibile
l'impiego sulla vasta popolazione a rischio. «È
bene sottolineare che le alterazioni vocali "spia"
della malattia non sono percepibili se non dal computer.
La scoperta non deve, perciò, indurre a scambiare
un po' di raucedine per un primo segno di Parkinson
— avverte Gianni Pezzoli, direttore del centro
per la malattia di Parkinson degli Istituti clinici
di perfezionamento di Milano —. Se il nuovo metodo
funzionerà, comunque, è possibile che
agendo con un tale anticipo, si possa rallentare o addirittura
impedire il processo neurodegenerativo, cosa che ancora
nessun farmaco riesce a fare».
Cesare Peccarisi
fonte: |
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31/05/2010
Secondo una ricerca americana, il morbo non si può prevenire
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Preoccupante verdetto di un comitato di esperti «ad hoc»
creato dall' Istituto nazionale della salute Usa (Nih) per studiare
il morbo di Alzheimer: «Non esiste al momento prova scientifica
che il morbo possa in alcun modo venire prevenuto», ha
concluso la commissione.
«Vorremmo proprio poter affermare che fare un puzzle al
giorno o prendere una certa pillola può tenere a bada
l'insorgere dell'Alzheimer ma purtroppo non abbiamo trovato
alcun riscontro scientifico ad ipotesi simili», ha ammesso
Martha Daviglus, professore alla Northwestern University che
ha presieduto il comitato indipendente.
I 15 esperti hanno studiato per mesi dozzine di ricerche in
materia alla ricerca di indizi che indicassero una qualche misura
per prevenire il morbo, ma nel migliore dei casi sono state
trovate solo delle associazioni.
«Si tratta di associazioni che non provano nulla - ha
però spiegato Daviglus - perché ad esempio individuare
una inferiore presenza dell'Alzheimer tra le persone più
fisicamente attive e mentalmente acute non significa che queste
attività fisiche o cerebrali prevengono la malattia».
Negli ultimi anni una serie di indagini avevano invece suggerito
la possibilità che esercitare la mente ed il corpo potesse
prevenire il morbo. Del comitato hanno fatto parte medici, geriatri,
infermieri, psichiatri.
L'Alzheimer colpisce oggi in America 5,3 milioni di cittadini
e per il 2050 i malati potrebbero salire a 16 milioni.
fonte: |
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26/05/2010
Ricercatori scoprono un modo per generare neuroni |
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Ricercatori in parte
finanziati dall'UE hanno convertito le cellule gliali
del cervello in due diverse classi funzionali di neuroni.
I loro risultati, pubblicati sulla rivista Public Library
of Science (PLoS) Biology, potrebbero portare a importanti
progressi nel trattamento di malattie neurodegenerative
come l'Alzheimer o l'ictus. Lo studio è stato
in parte finanziato dal progetto EUTRACC ("European
transcriptome, regulome and cellular commitment consortium"),
che è sostenuto con 12 milioni di euro nell'ambito
dell'area tematica "Scienze della vita, genomica
e biotecnologie per la salute" del Sesto programma
quadro (6° PQ). |
Le cellule gliali (o cellule della glia), comunemente
conosciute come il collante del sistema nervoso, circondano
i neuroni responsabili della trasmissione delle informazioni.
Le cellule gliali forniscono sostanze nutritive e ossigeno ai
neuroni, e li isolano gli uni dagli altri. Inoltre li proteggono
dagli agenti patogeni e rimuovono i neuroni morti.
Questo nuovo studio si è focalizzato
sulle astroglia (cellule gliali a forma di stella), uno dei
più comuni tipi di cellule gliali. Le astroglia hanno
diverse proiezioni che fanno da impalcatura di sostegno per
i neuroni. Sono inoltre strettamente legate alle cellule gliali
radiali. Durante lo sviluppo embrionale del cervello, queste
cellule gliali radiali o si trasformano in neuroni o fungono
da impalcatura su cui eseguire la migrazione dei neuroni neonati.
Mentre le astroglia normalmente non hanno il
potenziale di generare neuroni, il gruppo di ricerca della professoressa
Magdalena Götz e del dottor Benedikt Berninger, del Centro
Helmholtz di Monaco di Baviera, in Germania, è riuscito
a provocare la loro conversione in due principali classi di
neuroni corticali. Più precisamente, le astroglia sono
state convertite in neuroni eccitatori e inibitori che - come
indica il loro nome - eccitano o inibiscono l'azione nella cellula
bersaglio.
Questi risultati sono stati raggiunti grazie
all'espressione selettiva di specifici fattori di trascrizione,
ovvero di proteine che si legano a sequenze specifiche del DNA
(acido desossiribonucleico) e quindi controllano il trasferimento
delle informazioni genetiche.
"In questo studio siamo riusciti a riprogrammare
i neuroni appena creati, rendendoli capaci di sviluppare delle
sinapsi funzionanti. Queste rilasciano - a seconda del fattore
di trascrizione utilizzato - sostanze neurotrasmettitrici eccitatorie
o inibitorie", dice l'autore principale dello studio, il
dottor Christophe Heinrichs della Ludwig Maximilians Universität
(LMU) di Monaco di Baviera (Germania).
"I nostri risultati lasciano sperare che
la barriera che separa le cellule neuronali e le astroglia -
strettamente connesse tra loro - non sia insormontabile",
aggiunge il dottor Berninger. Ciò potrebbe aprire nuove
strade per la riparazione dei danni neuronali, come quelli causati
dalle malattie neurodegenerative, per esempio.
Al progetto EUTRACC hanno collaborato 20 partner,
per cercare di determinare la regolazione del genoma umano.
Integrato in una rete internazionale, il progetto mira a regolamentare
la mappa dei nodi e delle reti genetiche che controllano il
processo di differenziazione in tipi cellulari specifici. Il
progetto studia i circuiti genetici che controllano la formazione
dei tessuti neurali ed il sistema sanguigno.
fonte: |
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24/05/2010
Studio Usa su 700 pazienti sessantenni - LA 'PANCETTA' AUMENTA
IL RISCHIO DI Alzheimer |
(AGI) - Londra, 24 mag. - Ci sarebbe un legame tra
la 'pancetta' che viene soprattutto con la mezza eta' e lo sviluppo
di demenza in eta' senile. Lo afferma uno studio della Boston
University pubblicato dalla rivista 'Annals of Neurology'. I
ricercatori hanno studiato 700 pazienti con un'eta' media di
60 anni, misurando il loro Indice di massa corporea, la circonferenza
e la percentuale di grasso addominale, oltre che le dimensioni
del cervello. I soggetti piu' grassi, scrivono gli autori, avevano
tutti un volume minore della massa cerebrale. "I nostri
dati", ha spiegato Sudha Seshadri, che ha coordinato la
ricerca, "suggeriscono una forte connessione tra i soggetti
obesi, in particolare quelli con una grande componente di grassi
viscerali nell'addome, e il rischio di sviluppare demenza e
Alzheimer". -
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12/05/2010
La demenza porta via il significato dei sapori |
Il sapore è letteralmente la spezia di vita e per molta
gente vita senza i piaceri della tavola sarebbe impensabile.
Eppure appena questo aspetto di vita di tutti i giorni è
vulnerabile in determinate demenze degeneranti, con i pazienti
che sviluppano le abittudine alimentare anormali compreso i
cambiamenti in preferenze dell'alimento, faddism e dente dolce
patologico. La nuova ricerca ha rivelato la prova che questi
comportamenti sono collegati ad una perdita di significato per
i sapori, come riportato nell'emissione del giugno 2010 della
corteccia di Elsevier.
Il Dott. Katherine Piwnica-Verme dall'università
di Washington a St. Louis, Missouri, insieme al Dott. Jason
Warren e colleghi dall'University College di Londra, ha studiato
l'elaborazione delle informazioni di sapore in pazienti con
demenza semantica, una malattia degenerante che interessa i
lobi temporali del cervello. I pazienti con questa circostanza
soffrono una perdita profonda del significato delle parole e,
infine, delle cose nel mondo at large; inoltre, molti sviluppano
una preferenza per gli alimenti insoliti o i miscugli dell'alimento.
I ricercatori hanno verificato il sapore dei
pazienti che elabora facendo uso dei fagioli di gelatina: un
conveniente ed ampiamente - stimolo disponibile che copre una
vasta gamma dei sapori. Le capacità dei pazienti di discriminare
ed identificare i sapori e di valutare le combinazioni di sapore
secondo la loro convenienza e piacevolezza sono state paragonate
alla gente in buona salute della stessi età e precedenti
culturali. I pazienti potevano discriminare normalmente i sapori
differenti ed indicare se hanno trovato determinate combinazioni
piacevoli o non, ma hanno incontrati difficoltà identificare
i diversi sapori o valutare la convenienza delle combinazioni
particolari di sapore (per esempio, vaniglia e sottaceto).
Questi risultati forniscono la prima prova
che il significato dei sapori, come altre cose nel mondo, è
commovente nella demenza semantica: ciò è una
carenza vero “pentola-modale„ di conoscenza. La
ricerca dà gli indizi alla base del cervello per le abittudine
alimentare anormali e la valutazione alterata degli alimenti
indicati da molti pazienti con demenza. Più largamente,
i risultati offrono una prospettiva su come il cervello organizza
e valuta quei sapori ordinari che arricchiscono le nostre vite
quotidiane.
Note:
L'articolo è “sapore che elabora nella demenza
semantica„ da Katherine E. Piwnica-Verme, da Rohani Omar,
da Julia C. Hailstone e da Jason D. Warren ed è publicato
in corteccia, il volume 46, l'edizione 6 (il giugno 2010), pubblicata
da Elsevier in Italia.
Fonte:
Valeria Brancolini, Elsevier
fonte: |
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07/05/2010
Studio dimostra che alcune cellule possono essere rigenerate
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L'ESERCIZIO FISICO AIUTA A PROTEGGERE LA MEMORIA
(AGI) - Londra, 7 mag. - L'attivita' fisica contribuisce
a proteggere la memoria innescando la rigenerazione delle
cellule cerebrali che si perdono con l'eta', a causa di lesioni
o per il morbo d'Alzheimer. Lo ha dimostrato un gruppo di
ricercatori dell'Istituto di Immunobiologia Max Planck Institute
di Friburgo (Germania) in uno studio pubblicato sulla rivista
Cell Stem Cell. La scoperta potrebbe portare a nuovi modi
per affrontare la perdita di memoria provocata da diverse
cause. Prima si pensava che dalla nascita in poi le cellule
cerebrali morte non potevano essere sostituite. Ora, invece,
sappiamo che almeno alcune cellule nervose possono essere
rigenerate nell'ippocampo, la regione del cervello che svolge
un ruolo chiave nell'apprendimento e nella memoria. Tuttavia,
una gran parte delle cellule staminali che danno origine a
nuovi neuroni restano dormienti negli adulti. La nuova ricerca,
condotta sui topi, dimostra come queste cellule possono essere
"risvegliate" in seguito ad attivita' fisica o ad
attacchi epilettici. Gli scienziati tedeschi hanno scoperto
che i topi fisicamente attivi sviluppano i neuroni nell'ippocampo
in piu' rispetto agli animali inattivi. "L'esercizio
promuove la formazione di nuovi neuroni", ha detto Verdon
Taylor, che ha coordinato lo studio. Anche l'attivita' cerebrale
anormale, come quella che si verifica durante le crisi epilettiche,
e' risultata in grado di innescare la generazione dei neuroni.
Secondo Taylor, l'eccessiva formazione di nuove cellule nervose
svolge un ruolo nell'epilessia. Gli scienziati hanno identificato
diverse popolazioni di cellule staminali neuronali nel cervello
dei topi, alcuni delle quali erano attive e altre dormienti.
"Nei topi giovani, le cellule staminali si dividono quattro
volte piu' frequentemente che negli animali vecchi",
ha affermato Taylor. "Tuttavia, il numero di cellule
negli animali piu' vecchi e' solo leggermente inferiore. Pertanto,
le cellule staminali neuronali non scompaiono con l'eta',
ma sono tenuti in riserva", Nei topi fisicamente attivi,
alcune cellule staminali precedentemente dormienti sono state
viste 'ritornare in vita' e iniziare a dividersi. Altre cellule
staminali sporadicamente dormienti sono state influenzate
dall'attivita' fisica ma svegliate da crisi epilettiche. Un
modello simile di cellule staminali attive e inattive probabilmente
vale anche per il cervello umano, secondo gli scienziati.
E' quindi probabile che le cellule staminali dormienti potrebbero
essere riattivate negli esseri umani allo stesso modo dei
topi.
fonte:
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06/05/2010
L’Alzheimer attacca per prima la memoria |
L’ippocampo, area cerebrale della memoria a lungo termine
è È la parte del cervello dove risiede la memoria
a lungo termine, cioè l’ippocampo, la prima a essere
colpita in caso di morbo di Alzheimer: ecco perché spesso
è proprio un calo della memoria il primo campanello d’allarme
della comparsa della malattia. Quindi, un esame innovativo di
questa struttura del cervello e, allo stesso tempo, della memoria,
potrebbe aiutare a scoprire precocemente la predisposizione
alla malattia.
A rivelarlo è uno studio italiano, condotto
dai ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università
di Roma Tor Vergata e della Fondazione Santa Lucia di Roma e
pubblicato su Neurology, la rivista ufficiale dell’American
Academy of Neurology.
I neurologi hanno esaminato 76 soggetti, tra i 20 e gli 80 anni,
sani e privi di chiari problemi neurologici: sono stati valutati
con un test di memoria, sia verbale sia visiva, a lungo termine,
e, contemporaneamente, sottoposti a una innovativa tecnica di
risonanza magnetica dell’encefalo, chiamata diffusion
tensor imagig. Grazie a questo esame è possibile scoprire
le eventuali alterazioni della microstruttura dei neuroni.
Si è visto, così, che negli over 50 gli scarsi
risultati nel test di memoria sono correlati alla presenza di
rilevanti alterazioni microstrutturali dell’ippocampo.
Si pensa, quindi, che la presenza di queste due condizioni –
alterazioni all’ippocampo e deficit della memoria –
possa evidenziare precocemente la predisposizione a sviluppare
il morbo di Alzheimer.
Certo, prima di arrivare a conclusioni affrettate occorrerà
aspettare le conferme del tempo: ora, per circa tre anni, i
soggetti studiati verranno tenuti sotto controllo periodico
dai ricercatori, proprio per capire se il metodo usato sia valido.
In quel caso si potrebbero aprire nuove vie non solo nella diagnosi
precoce, ma anche nella cura farmacologica, auspicando terapie
altrettanto precoci, in grado di modificare il decorso neurodegenerativo
dell’Alzheimer.
fonte:
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27/04/2010
Alzheimer, diagnosi precoce possibile con biomarcatori |
MIAMI – Si è appena concluso all'Eden
Roc Hotel di Miami Beach l'VIII Simposio annuale sulle fasi
iniziali dell'Alzheimer, già MCI Symposium. Gli organizzatori
hanno cambiato il nome al tradizionale appuntamento per sottolineare
il dato acquisito che “la malattia in realtà si
innesca decenni prima dell'osservazione del declino cognitivo,
molto prima dei cambiamenti lievi definiti MCI”...
La comunità scientifica è infatti
unanime nel ritenere che durante la fase clinicamente “silente”
è già in atto il processo patologico legato all'amiloide,
alla riduzione del metabolismo cerebrale, alla compromissione
e alla morte dei neuroni. La durata di questo periodo asintomatico
sembra essere influenzata da fattori genetici, dallo stile di
vita e dalla cosiddetta “riserva cognitiva”.
In sostanza, quando si manifestano i tipici
sintomi legati alla perdita di memoria, i danni al cervello
del paziente sarebbero già a un livello di guardia e
predisporrebbero a una progressione verso la demenza.
Il messaggio del simposio di Miami è
dunque di concentrare gli sforzi conoscitivi e clinici sui “biomarcatori
antecedenti” (livelli di abeta42 e tau, scansioni PET,
MRI, fMRI ecc.), che possono essere rilevati nell'organismo
sin dalle prime fasi di sviluppo della malattia, come confermano
i recenti studi realizzati all'interno della Alzheimer's Disease
Neuroimaging Initiative (ADNI).
Dal canto loro i neuropsicologi intervenuti
hanno sottolineato la necessità di mettere a punto nuovi
test per “misurazioni cognitive” sempre più
sofisticate in grado di identificare precocemente e monitorare
i cambiamenti funzionali occorrenti nel passaggio dal normale
invecchiamento alla condizione di mild cognitive impairment
(MCI), costrutto peraltro ancora molto controverso.
Fra i relatori, nomi di rilievo nel panorama
delle malattie neurodegenerative dell'invecchiamento, quali
John Morris, Clifford Jack, Rhoda Au, Richard Caselli, David
Loewenstein, Steven DeKosky, Robert Green, Joseph Quinn, Eric
Siemers, Norman Foster, Reisa Sperling, Mark Bondi e Lisa Mosconi.
Le sintesi degli interventi e le slide ppt
presentate a Miami sono disponibili sul sito di Alzheimer's
Research Forum (alzhforum.org).
Per una rassegna aggiornata degli studi scientifici
sui biomarcatori promettenti per la diagnosi precoce dell'Alzheimer,
sugli strumenti di valutazione cognitiva dei cambiamenti funzionali
nell'invecchiamento e sulle nuove metodologie di analisi "non
lineare" dei dati di screening, in Italia è possibile
rifarsi al libro di fresca pubblicazione: Marco Mozzoni, Alzheimer,
come diagnosticarlo precocemente con le reti neurali artificiali
(Franco Angeli Editore 2010).
fonte: |
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26/04/2010
Parte la sperimentazione del vaccino che può rallentare
l’Alzheimer |
Parte la sperimentazione del vaccino che può
rallentare l’Alzheimer
Durante il Brain Forum, convegno in occasione
dei 101 anni di Rita Levi Montalcini, Elio Scarpini, dell’Ospedale
Maggiore di Milano e del dipartimento di Neuroscienze dell’università
di Milano, ha annunciato che tra poco partirà anche in
Italia la sperimentazione di fase 2 di un farmaco terapeutico
per l’Alzheimer.
Si tratta di una sorta di vaccino che non è
in grado di prevenire la malattia, ma di rallentarne la progressione,
favorendo la formazione di anticorpi specifici in grado di rimuovere
le placche di sostanza beta-amiloide tipiche della patologia.
Il nuovo farmaco, che sarà testato su
30 pazienti di diverse città italiane tra cui Roma, Firenze
e Genova, “dovrà però essere somministrato
in fase precoce, prima che si sviluppino i danni alla memoria”
spiega Scarpini.
Secondo il ricercatore: “c’è
la necessità di sviluppare marcatori biologici in grado
di segnalare la malattia al primissimo stadio per consentirci
di intervenire con il vaccino e di ottenere i migliori risultati
possibili”.
La sperimentazione, è internazionale,
oltre all’Italia coinvolge diversi paesi europei: Austria,
Germania, Francia, Repubblica Ceca, Slovacchiae Croazia.
Già in passato si sono avute sperimentazioni
di farmaci per combattere l’Alzheimer basati sulla produzione
di anticorpi specifici contro le placche amiloidi, ma nessuna
di esse è arrivata alla fase 3, quella in cui la somministrazione
del farmaco, considerato sicuro, viene estesa ad un maggior
numero di pazienti.
Oggi questa forma di demenza senile colpisce
500mila persone in Italia, 6 milioni in Europa e, nel totale,
26milioni di persone nel mondo.
Questo farmaco, potrà essere a disposizione
entro pochi anni, probabilmente a partire dal 2012.
fonte:
Antidoto alla peste dell’Alzheimer:
farmaco che vaccina e cura. Tra tre anni sapremo
Un vaccino contro il morbo di Alzheimer, in
grado di rallentare fortemente il decorso della malattia. Questo
il frutto del lavoro di un gruppo di ricercatori austriaci e
che potrebbe portare, nel giro di qualche anno, a trovare finalmente
una cura per una delle più insidiose e diffuse malattie
della senilità. Per ora il farmaco Ad02 è ancora
in fase di sperimentazione e, per la precisione, non è
neppure un vero e proprio vaccino visto che viene somministrato
a soggetti già ammalati. Ma se i risultati dovessero
essere quelli sperati dai ricercatori partirà immediatamente
una nuova fase per confezionare un vaccino “puro”,
da somministrarsi, cioè, a soggetti sani per prevenire
la diffusione del morbo di Alzheimer.
Il nuovo farmaco è frutto di una ricerca
del laboratorio britannico GlaxoSmithKline, e ha coinvolto,
nella prima fase, diversi paesi europei tra cui Austria, Germania,
Francia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Croazia. In Italia la
sperimentazione è coordinata dalla Fondazione Santa Lucia
di Roma e alla nuova fase parteciperanno complessivamente 30
pazienti fra Roma, Milano, Firenze, Genova e Brescia. Si tratta
di soggetti di età inferiore ai 55 anni e con una patologia
ancora in fase lieve o moderata. Il vaccino, infatti, non è
in grado di far regredire la malattia ma ne rallenta fortemente
il decorso.
Spiega Elio Scarpini, neurologo dell’Università
di Milano che “il vaccino sarà sia preventivo sia
terapeutico e già su modello animale, topi e scimmie
per la precisione, ha dimostrato di ridurre in maniera significativa
le placche senili che si formano nel cervello e che sono la
base della malattia di Alzheimer”. Al momento l’Ad02
ha brillantemente superato la prima fase di test risultando,
secondo quanto detto dallo stesso Scarpini “ben tollerato”
dai volontari che si sono sottoposti alla sperimentazione. Il
difficile, però, viene adesso perché è
dalla fase al via in questi giorni che si attendono le prime
e decisive risposte sull’efficacia. Per 0ra, insomma,
si sa che l’Ad02 non fa male. A breve sapremo se fa anche
bene.
Il funzionamento del nuovo farmaco sulla carta
è relativamente semplice: nei soggetti ammalati di Alzheimer
si formano una serie di placche che producono infiammazione
e perdita di funzionalità da parte dei neuroni. L’Ad02
interviene proprio sulle placche producendo una serie di anticorpi
specifici che ne favoriscono il distacco e la successiva eliminazione.
Il morbo di Alzheimer riguarda circa 26 milioni
di persone di cui 800.000 in Italia: una cifra destinate a salire
di pari passo con l’aumento dell’età media
della popolazione. La malattia, che di norma compare dopo i
60 anni anche se non mancano casi precoci, aggredisce le cellule
celebrali. In una prima fase i soggetti colpiti accusano solo
lievi disturbi della memoria ma, con il procedere della malattia,
il quadro clinico peggiora fino a portare ad una sostanziale
demenza.
I tempi per la cura anti Alzheimer, ovviamente,
sono ancora incerti anche perché un vaccino, prima di
diventare tale deve superare tra distinte fasi di test. L’Ad02
ha già brillantemente superato la prima, quella in cui,
si misura su un campione ridotto di persone, la sicurezza del
preparato. Nella fase 2, invece, il campione di volontari diventa
più vasto e si tirano le prime somme sull’efficacia
del farmaco. In caso di risposte incoraggianti si arriva alla
terza e ultima fase, quella che riguarda campioni di migliaia
di persone e precede l’eventuale immissione del vaccino
sul mercato. Fino ad oggi, però, nessuna ipotesi scientifica
di vaccino anti Alzheimer ha ancora raggiunto la fase 3.
Il nuovo vaccino, ad ogni modo, sembra decisamente
sulla strada giusta anche se, per avere risposte definitive,
bisognerà aspettare la fine della sperimentazione che
non avverrà prima degli ultimi mesi del 2012.
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16/04/2010
Fumare può favorire la demenza |
Un nuovo studio mette in dubbio l'utilità della nicotina
nel proteggere dall'Alzheimer
Fumare può favorire la demenzaPrecedenti studi avevano
affermato che una piccola dose di nicotina proteggesse il cervello
dalla placca causata dagli amiloidi nella malattia di Alzheimer;
tuttavia non era chiaro il ruolo di questa sostanza sui cosiddetti
grovigli neurofibrillari di proteine tau che si formano nelle
cellule nervose in via di degenerazione.
Un nuovo studio, sempre su modello animale, mette in dubbio
questa potenziale attività benefica sui grovigli di proteine
tau.
I ricercatori cinesi della Third Military Medical
University di Chongqing (Cina) coordinati dal dottor Yan-Jiang
Wang, hanno iniettato placche amiloidi nel cervello di topi
sani e fornendogli poi l’equivalente di una dose giornaliera
di nicotina di un fumatore medio, il tutto per due settimane.
Altri topi, a cui erano comunque state iniettate le placche
amiloidi, non hanno ricevuto la nicotina e hanno fatto da gruppo
di controllo.
Dalla relazione pubblicata sulla rivista "European Journal
of Pharmacology”, si apprende che tutti i topi dei due
gruppi hanno mostrato i primi segni della presenza dei grovigli
neurofibrillari delle proteine tau. Dopodiché avevano
difficoltà a orientarsi e navigare in un labirinto, tuttavia
i topi a cui era stata data la dose di nicotina si sono comportati
peggio di quelli non trattati ed erano in maggiori difficoltà.
Un segno, interpretato dai ricercatori, che indica come la nicotina
in questo caso abbia probabilmente un effetto deleterio anziché
positivo. Ulteriori studi che possano confermare un collegamento
in ambito umano saranno necessari.
(lm&sdp)
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14/04/2010
Cervello: i ricordi a volte si cancellano, le emozioni
mai |
Secondo i risultati di una ricerca realizzata su pazienti con
gravi forme di amnesia
ROMA - A volte una persona anziana non e' piu'
in grado di ricordare un fatto sepolto nel suo lontano passato,
eppure puo' ancora provare il 'brivido' dell'emozione che quel
fatto, per esempio la nascita di un figlio, ha prodotto. Anche
un individuo malato, la cui memoria e' KO per esempio per via
del morbo di Alzheimer, non ricordera' neanche cosa ha fatto
10 minuti prima ma, se quell'azione gli ha prodotto un sentimento,
state pur certi che la sua memoria inceppata lo ricordera'.
Le emozioni, infatti, secondo una ricerca pubblicata sui Proceedings
of the National Academy of Sciences, lasciano segni indelebili
nel cervello: anche quando i ricordi scompaiono le emozioni
loro legate rimangono. La scoperta e' di Justin Feinstein e
DanTranel dell'universita' dell'Iowa. Gli esperti hanno osservato
pazienti con gravi forme di amnesia e visto che, anche se incapaci
di ricordare sia pure un minimo la trama di un film appena visto,
ricordano e continuano a provare a lungo le emozioni suscitate
dalla visione del film. Questi risultati hanno implicazioni
importanti su due fronti: oggi sono in corso molte ricerche
volte a trovare un metodo per cancellare il ricordo di un evento
traumatico ma, stando a questo studio, anche se cancelli il
fatto doloroso non e' detto che cio' basti a cancellare il dolore
procurato da quell'episodio; inoltre i malati di Alzheimer,
pur ricordando poco o nulla delle loro giornate, hanno 'ricordi
emotivi' che non vanno dimenticati per offrire loro un'assistenza
di qualita'. Gli esperti hanno osservato la ''memoria emotiva''
di un gruppo di pazienti colpiti da grave amnesia a causa di
lesioni a livello dell'ippocampo che e' la sede della nostra
memoria ed e' cruciale per il trasferimento delle nuove informazioni
nel 'cassetto' della memoria permanente. Questi pazienti hanno
difficolta' a ricordare qualsiasi informazione in modo duraturo.
I neuropsicologi hanno lasciato vedere per alcuni giorni dei
film, commedie o film drammatici per suscitare felicita' o tristezza
in questi pazienti. Pur non avendo problemi a ridere o piangere
di un film, i pazienti gia' a 10 minuti dalla visione non ricordano
minimamente cosa hanno visto. Eppure, e' emerso sottoponendoli
a questionari ad hoc per valutare il loro stato emotivo, i pazienti
trattengono a lungo le emozioni suscitate dalla visione dei
film, soprattutto la tristezza. ''I pazienti continuano a provare
le emozioni scatenate dal film, la tristezza piu' a lungo della
felicita', entrambi i sentimenti durano molto piu' a lungo di
quanto persista in loro il ricordo del film'', ha spiegato Feinstein.
Cio' potrebbe significare che non basta cancellare il ricordo
di un evento traumatico per cancellare il dolore legato a quell'evento.
Inoltre, ha concluso Feinstein, e' necessario tener conto di
questi risultati per assistere con umanita' un malato di Alzheimer:
questo non si ricordera' di certo una telefonata affettuosa
di un parente ma manterra' il bel ricordo dell'emozione suscitata
da quella chiamata. Viceversa se lo si trattera' con non curanza
e poco rispetto, il malato se ne ricordera' anche se la sua
memoria non funziona.
fonte: |
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13/04/2010
ALZHEIMER, IL RISCHIO SI RIDUCE CON NOCI PESCE E POMODORI |
(ASCA) - Roma, 13 apr - Pesce, pollo, frutta, verdura e noci:
ecco gli ingredienti della dieta anti-Alzheimer, secondo quanto
emerge da uno studio pubblicato su Archives of Neurology dai
ricercatori della Columbia University di New York, negli Usa,
guidati da Nikolaos Scarmeas.
La ricerca, durata quattro anni e condotta
sulle abitudini alimentari di 2.148 soggetti di 65 anni, ha
dimostrato che una dieta ricca di noci, pesce, pomodori, pollo,
verdure crucifere (come broccoli e cavolfiori), verdure a foglia
verde (come barbabietole, carote, sedano e lattuga) e scura
(come bieta e spinaci) e povera invece di carne rossa, interiora
e burro, risulta in grado di ridurre il rischio di Alzheimer
del 38%.
''Lo studio ha dimostrato che questa combinazione
di alimenti influenza il livello di acidi grassi e vitamine
- spiega Scarmeas -. In tal modo influenza anche il rischio
di sviluppare l'Alzheimer''. |
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08/04/2010
Alzheimer, italiana nuova tecnica misurazione atrofia calloso
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Italiana nuova tecnica misurazione atrofia
calloso in Alzheimer e MCI.Un gruppo di ricerca italiano coordinato
da Margherita Di Paola del Laboratorio di Neurologia Clinica
e Comportamentale dell'IRCCS Fondazione Santa Lucia di Roma
ha messo a punto una nuova tecnica multimodale di risonanza
magnetica in grado di analizzare i cambiamenti strutturali che
hanno luogo nel corpo calloso di pazienti con declino cognitivo
lieve (MCI) e Alzheimer in fase iniziale. Lo studio è
pubblicato su Neurology.
In particolare, gli MCI amnesici (declino cognitivo
presente solo nel dominio della memoria) presenterebbero una
significativa atrofia macrostrutturale esclusivamente nella
sezione anteriore del calloso (il fascio di fibre di sostanza
bianca che mette in connessione i due emisferi del cervello),
mentre nella fase iniziale dell'Alzheimer (stadio generalmente
successivo alla condizione prodromica definita MCI) l'atrofia
si estenderebbe alle subsezioni posteriori, comportando inoltre
modifiche complessive a livello microstrutturale.
Il campione di pazienti allo studio, reclutato
in tre cliniche italiane, era composto da 38 soggetti con Alzheimer
lieve, 38 con MCI amnesico, 40 controlli.
Tenendo presente che già precedenti
lavori avevano messo in luce la particolare suscettibilità
all'atrofia del corpo calloso nel corso dell'Alzheimer, la novità
di questo studio – precisano i ricercatori nel paper –
è stata la possibilità, attraverso l'uso simultaneo
di diversi parametri di imaging a tensore di diffusione (DTI)
e di morfometria a voxel (VBM), di osservare le differenze intrinseche
dei cambiamenti della sostanza bianca callosale nei pazienti,
così da poter formulare ipotesi sui diversi meccanismi
alla base del processo degenerativo.
Ebbene, due sono i meccanismi individuati dal
gruppo di ricerca che ha visto fra i collaboratori anche l'Università
abruzzese di L'Aquila Coppito, l'Università di Roma Tor
Vergata e gli Ospedali romani San Camillo e San Giovanni Addolorata:
la degenerazione walleriana nelle subregioni posteriori del
calloso (suggerita da una aumentata diffusività assiale
in assenza di modificazioni frazionali anisotrope) e un processo
di retrogenesi nelle subregioni anteriori (suggerite da una
aumentata diffusività radiale in assenza di modificazioni
nella diffusività assiale).
“Sulla base di questi risultati, l'auspicio
è che la tecnica messa a punto dal nostro gruppo di ricerca
possa presto entrare a far parte della routine clinica, ai fini
della diagnosi precoce dell'Alzheimer, anche se, ovviamente,
il cambiamento strutturale del calloso misurabile con risonanza
magnetica non può essere l'unico marcatore da tenere
in considerazione”, ha spiegato Margherita Di Paola a
BrainFactor.
Supportata nei suoi lavori di ricerca dal Ministero
della Salute, la dottoressa Di Paola ritiene che il nostro Paese
sta facendo a sufficienza nella prevenzione dei disturbi cognitivi
dell'invecchiamento, “anche se, parlando di ricerca, l'impegno
di energie per lo studio e la comprensione dei diversi aspetti
dell'invecchiamento cerebrale non è mai sufficiente”.
Infine, come neuropsicologa, si dice fiduciosa
che “anche di fronte all'avanzare di queste tecniche più
'oggettive' di misurazione, la valutazione neuropsicologica
resterà sempre una componente importante all'interno
del processo diagnostico, che deve tenere in considerazione
i molteplici risvolti della fisiologia e della patologia umana”.
fonte |
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06/04/2010
CELLULE IMMUNITARIE CERVELLO CRUCIALI IN ALZHEIMER |
ROMA, 6 APR - Alcune cellule immunitarie del cervello potrebbero
essere la causa della perdita di neuroni associata alla malattia
di Alzheimer. Le cellule in questione,sono note come microglia
e sono responsabili della sorveglianza immunitaria del cervello.
Un gruppo di ricerca finanziato dall'Unione Europea, che ha
coinvolto scienziati della Ludwig-Maximilians-Universitat, in
Germania e dell'universita' della California, ha indagato il
ruolo della microglia nella eliminazione delle cellule nervose.
I ricercatori hanno osservato i processi all'interno del cervello
di topi geneticamente modificati, grazie alla microscopia bifotonica
e hanno scoperto che la microglia si raccoglie intorno ai neuroni
prima che le cellule cerebrali cominciano a morire e non dopo
la loro morte con lo scopo di degredarle, come ipotizzato finora.
Con il progredire della malattia, le cellule sotto stress produrrebbero
un messaggero chimico che attrae la microglia, causa di reazioni
infiammatori e responsabili dell'eliminazione dei neuroni. ''Presumiamo
che le cellule nervose malate collocate vicino alle placche
secernino un messaggero chimico che induce lamicroglia a stabilirsi
in esse'' ha precisato Jochen Herms delcentro di ricerca tedesco.
I ricercatori hanno poi verificato che silenziando il genedel
recettore cruciale per la comunicazione tra neuroni emicroglia,
si previene la perdita di cellule nervose.
fonte |
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02/04/2010
GENETICA : LA MAPPA DEL DNA COMPIE DIECI ANNI |
C'é ancora tantissimo lavoro da fare.
Dieci anni fa la mappa del Dna dell'uomo è stata un grande
traguardo, "ma soprattutto il punto di partenza di una
lunghissima avventura, sapevamo che avremmo avuto a disposizione
una miniera di dati": per il genetista Edoardo Boncinelli,
dell'università Vita e Salute di Milano, la differenza
rispetto al passato è che "senza ombra dubbio c'é
tanto da fare, ma adesso possiamo lavorare".
Scoprire nuove cure è solo una parte
del lavoro che aspetta i genetisti per i prossimi 10-20 anni;
la vera scommessa è capire come i geni controllano fenomeni
complessi come la memoria. "Dieci anni fa la capacità
di decifrare il genoma umano è stata un trionfo, che
continua anche ora e che finora ha portato molte informazioni",
osserva. "Come ricercatore - aggiunge - mi colpisce la
possibilità di confrontare il nostro genoma con quello
di altre specie, come lo scimpanzé. Questo ha due effetti:
da un lato dà corpo definitivamente alla teoria dell'evoluzione
perché verificare somiglianze e differenze nei Dna è
come ripercorrere il processo evolutivo".
Al di là di questo valore conoscitivo,
per Boncinelli la mappa del Dna umano ha avuto aspetti applicativi
importanti: "è stata utile essenzialmente a migliorare
la conoscenza dei tumori e a studiare aspetti del genoma che
senza questo strumento sarebbe stato impossibile capire".
Per esempio, una delle scoperte tanto produttive
quanto impreviste è stata quella dei micro Rna, le piccole
sequenze di geni che come registi regolano l'espressione di
altri geni. "È stata - rileva Boncinelli - una scoperta
rivoluzionaria, che sarebbe stata impossibile prima del sequenziamento
del genoma. Impossibile dire dove ci porterà questa ricerca".
Una delle prime conseguenze potrebbe riguardare
ancora una volta l'Evoluzione perché, osserva Boncinelli,
dal confronto tra il libretto di istruzioni genetiche dell'uomo
e dello scimpanzé emerge che "l'unica differenza
solida che per ora sia stata trovata è in 50 micro Rna
che l'uomo ha e lo scimpanzé no". Il dato di fatto
che la dice lunga sul lavoro da fare è che nei dieci
anni appena trascorsi si è riusciti a studiare appena
il 30% del Dna umano. "Non sappiamo comprendere il 70%
del nostro genoma", rileva il genetista. Un serio aiuto
potrà venire dai programmi di analisi sempre più
efficienti e complessi messi a punto dagli esperti di bioinformatica,
capaci di analizzare rapidamente le sequenze di Dna. "Tutti
sono sicuri che sarà un'esplosione rivoluzionaria, ma
al momento è solo una promessa. Siamo nella situazione
di chi commenta un testo antico di cui non si conosce la lingua".
Sono almeno due, secondo Boncinelli, le grandi scommesse sul
genoma umano.
La prima consiste nel capire come viene regolata
l'attività dei geni perché, spiega, "la regolazione
controlla tutto, dai tumori alle malattie cardiocircolatorie,
all'Alzheimer". La seconda, ancora più difficile,
è scoprire come i geni regolano la memoria: "poiché
non sappiamo come e dove sono scritti i nostri ricordi, l'unica
possibilità di risolvere l'enigma è che ci siano
regioni del genoma specializzate nel codificare i ricordi".
http://www.finanzainchiaro.it
Di redazione (del 02/04/2010 @ 07:41:14, in Scienze e Società
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31/03/2010
RICERCA: SIENA BIOTECH E ROCHE INSIEME PER CURA ALZHEIMER |
(ASCA) - Siena, 31 mar - La societa' farmaceutica
Roche esercitera' anticipatamente il diritto di opzione per
il proseguimento dello sviluppo clinico, della produzione ed
eventuale distribuzione di alcune molecole candidato che potrebbero
rappresentare terapie innovative contro la malattia di Alzheimer.
Lo comunica Siena Biotech, la societa' strumentale della Fondazione
Mps, che ha sviluppato la ricerca. Siena Biotech ha ricevuto
un primo pagamento relativo all'esercizio dell'opzione e potra'
ricevere ulteriori pagamenti allorche' il prodotto sviluppato
da Roche raggiunga prestabiliti traguardi nello sviluppo e registrazione.
A seguito della riuscita dello sviluppo clinico e dell'introduzione
sul mercato del relativo prodotto, Siena Biotech ricevera' inoltre
royalty sulle vendite dello stesso. Siena Biotech mantiene anche
il diritto di svolgere attivita' di ricerca e sviluppo su nuove
molecole identificate nel corso della collaborazione per indicazioni
nelle malattie rare.
''Questo progetto - spiega il dottor Giovanni
Gaviraghi, amministratore delegato e direttore generale di Siena
Biotech -rappresenta uno dei vari esempi di molecole frutto
della nostra ricerca che si stanno avvicinando o gia' hanno
raggiunto gli studi clinici, con la concreta possibilita' di
portare a fruizione a favore dei numerosi pazienti affetti da
malattie neurodegenerative oggi incurabili nuovi efficaci trattamenti.
E' nostro convincimento che la scelta di Roche di progredire
questo progetto accelerera' ulteriormente il suo sviluppo, cosi'
fornendo a Siena Biotech ulteriori risorse da investire in altri
progetti del proprio portafoglio da avanzare in sviluppo clinico''.
afe/mcc/ss |
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28/03/2010
nuova ipotesi genetica spiega la maggiore incidenza nelle donne |
Potrebbero essere le donne quelle più esposte al Morbo
di Alzheimer e ciò sarebbe riconducibile ad
un fattore genetico, lo avrebbe stabilito uno studio
scientifico pubblicato sulla rivista Nature Genetics dal professore
Steven Younkin, ricercatore presso il Mayo Clinic College
of Medicine (Jacksonville, Florida - Usa), secondo il quale
nel cromosoma X potrebbe essere presente una mutazione genetica
associata al Morbo di Alzheimer.
La variante genetica che sarebbe coinvolta nella malattia
fa parte del gene PCDH11X, capace di controllare la protocaderina,
una particolare proteina che se danneggiata non darebbe più
la possibilità alle cellule nervose di interconnettersi
fra di esse.
Sbagliata dunque l’ipotesi secondo la quale la donna
andava incontro all’Alzheimer perché da sempre
gode di una vita media più lunga rispetto all’uomo;
propendendo invece per questa ipotesi genetica il segreto
della maggiore incidenza della malattia nel sesso “debole”
risiederebbe nel cromosoma X, che, come sappiamo, è
posseduto in forma doppia nella donna che dunque sarebbe maggiormente
esposta alla malattia rispetto all’uomo.
Quando la variazione genetica si limita ad un solo cromosoma
X della donna, il rischio di insorgenza della malattia di
Alzheimer si equivale con quello dell’uomo. Insomma,
ci troviamo di fronte ad un’ipotesi molto importante
ai fini dell’insorgenza della grave patologia, per lo
meno è la prima volta che si attribuisce tanta importanza
all’ipotesi genetica del Morbo di Alzheimer nei due
sessi, fermo il fatto, tuttavia, che il fattore età
resta sempre una variante molto importante da considerare
sempre.
fonte:
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27/03/2010
Inventore Ru486: 'ho la cura per l'Alzheimer'
Il medico francese della pillola del giorno dopo chiede finanziamenti
per ricerca |
PARIGI - Curare il morbo di Alzheimer sarà possibile
secondo il professor Etienne-Emile Baulieu, l'inventore della
pillola del giorno dopo, la Ru 486. Lo ha detto lui stesso presentando
la sua ultima scoperta: una proteina capace di rallentare la
demenza degenerativa invalidante che esordisce in prevalenza
in età senile. Si chiama Fkbp52, è presente in
grande quantità nel cervello (fa parte della famiglia
delle immunofiline che si lega a farmaci immunosoppressori)
e se stimolata da un farmaco può riparare la Tau, la
proteina scoperta da Michel Goedert nel 1988 - che gioca un
ruolo importante nel buon funzionamento dei neuroni - che alterandosi
con l'età è la principale responsabile dell'Alzheimer
e delle demenze senili in genere
Dopo l'"Elisir di eterna giovinezza"
(Dhea) e la Ru 486, questo instancabile endocrinologo e biochimico,
all'età di 83 anni, pensa quindi di "avere trovato
il modo di bloccare l'invecchiamento del cervello". "Ho
fatto questa scoperta un anno e mezzo fa - racconta all'ANSA
Baulieu - Mi rivedo con il naso sul microscopio nel momento
in cui ho osservato che il Tau reagiva. Ho detto a Beatrice
Chambraud (una delle ricercatrici della sua equipe all'Istituto
della ricerca medica Inserm ndr ): abbiamo trovato come riparare
il Tau, guarire l'Alzheimer". "Le nostre ricerche
aprono la strada alla possibilità di una diagnosi precoce
del morbo - aggiunge - le anomalie biochimiche infatti sono
presenti almeno 5 o 10 anni prima dei segnali clinici".
Dopo avere stabilito il legame tra le due proteine
i ricercatori hanno mostrato in laboratorio che una forte quantità
di Fkbp52 impediva l'accumulo di Tau nelle cellule nervose:
"si può dunque trovare un rimedio basato su questa
reazione - continua il medico - sono convinto del risultato,
che si può fare qualcosa sul piano della conoscenza,
del trattamento e della prevenzione". "Tra due o tre
anni - continua il medico - se avremo trovato i 5 milioni di
euro necessari per finanziare la ricerca, sapremo se funziona
davvero. Ora ho la soluzione mi mancano solo gli strumenti".
L'annuncio di Baulieu è infatti motivato dal "bisogno
di fondi per potere continuare la sperimentazione".
A fare il primo passo è stato Pierre
Bergé, il compagno del defunto stilista Yves Saint Laurent,
che ha annunciato il suo impegno come mecenate. Grazie alla
sua donazione si potranno condurre studi clinici sugli animali,
poi sull'uomo e trovare il trattamento per "dopare"
questa proteina anti-Alzheimer. "Si vive sempre più
a lungo. Un bambino su due nato dopo il 2000 sarà centenario
- spiega l'endocrinologo - Ma il cervello invecchia più
in fretta del corpo". L'Alzheimer colpisce più di
26 milioni di persone in tutto il mondo, oltre 500.000 in Italia
e 800.000 in Francia. Secondo l'ultimo rapporto dell'associazione
Alzheimer's Disease International (Adi), nel 2010 le persone
che ne soffriranno saranno oltre 35 milioni a livello mondiale
che sono destinate a raddoppiare nei prossimi 20 anni: sono
attesi 65,7 milioni di malati nel 2030 e ben 115,4 milioni nel
2050.
di Aurora Bergamini |
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26/03/2010
nuovo studio mette in evidenza il ruolo del sistema
immunitario |
Una nuova ricerca finanziata dall’UE suggerisce che
le cellule immunitarie del cervello potrebbero essere la causa
della perdita di neuroni associata alla malattia di Alzheimer.
I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Neuroscience,
potrebbero portare allo sviluppo di nuovi trattamenti per
le malattie neurodegenerative.
L’Unione europea ha sostenuto il progetto
NEURO.GSK3 (“GSK-3 [glycogen synthase kinase 3] in neuronal
plasticity and neurodegeneration: basic mechanisms and pre-clinical
assessment”), con un finanziamento di 3,57 milioni di
euro nell’ambito del tema “Salute” del Settimo
programma quadro (7° PQ).
La malattia di Alzheimer è una delle
principali cause di demenza tra gli anziani: ben 18 milioni
di persone nel mondo soffrono di questo disturbo, e questa cifra
è destinata a crescere con l’ invecchiamento della
popolazione. La malattia è caratterizzata dalla progressiva
e irreversibile perdita di cellule nervose del cervello, associata
alla formazione di proteine non solubili che formano le cosiddette
placche beta-amiloidi.
fonte |
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22/03/2010
Parlare di calcio combatte l'Alzheimer |
Parlare di calcio o, in generale rievocare
grandi eventi di sport, aiuta gli individui colpiti da Alzheimer
o demenza a far fronte alla propria condizione.
Lo sostiene di una ricerca della Caledonian
University (Glasgow, Scozia) diretta dalla professoressa Debbie
Tolson.
Il team della professoressa Tolson è
stato ispirato dall'esperienza di George Jaconelli, curatore
di incontri settimanali per soggetti colpiti dai disturbi in
questione.
Jaconelli ha infatti notato come parlare di
eventi sportivi del passato (in particolare, le grandi partite
di calcio) aiutasse i malati di demenza o Alzheimer. In base
ai suoi resoconti, Persone che prima faticavano a esprimersi
e che spesso tutto quello che riuscivano a dire era ciò
che desideravano per cena o che andavano a dormire, sono tornati
a prendere maggior possesso della capacità di conversare
proprio dopo aver condiviso i propri ricordi sportivi con altri
pazienti.
Allora, i ricercatori hanno voluto verificare
tale beneficio.
Così la Tolson descrive i risultati:
"Ciò che abbiamo scoperto è che una reminiscenza
di partite di calcio è piacevole e sembra avere molti
benefici. La mancanza di stimoli sociali è nociva per
le persone con demenza. Esagera l'impatto della condizione.
Esso può portare alla depressione e incoraggia le persone
a ripiegarsi su se stesse".
La scienziata sottolinea come l'effetto benefico
delle chiacchierate sullo sport abbia un effetto limitato, al
massimo qualche giorno. Inoltre, tale pratica non può
essere considerata una cura per la demenza.
Specificato questo, "Abbiamo scoperto
che questo ha incoraggiato la gente a conversare, e sembrava
a compensare in parte il tono basso dell'umore, e certamente
ha aiutato le persone ad affrontare alcuni dei sentimenti di
frustrazione", conclude la ricercatrice.
Fonte: Lindsay Moss, "Football
replays used to tackle Alzheimer's" ,The Scotsman, 18/03/010 |
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16/03/2010
Alzheimer, Diagnosi Precoce Grazie Al Test ''Preciso''
Al 96% |
(ASCA)
- Roma, 15 mar - Alzheimer: studiosi americani hanno realizzato
un test in grado di diagnosticare precocemente l'insorgere della
patologia con una precisione del 96%, secondo quanto emerge
da uno studio che sara' pubblicato in aprile su Journal of Alzheimer's
Disease dai ricercatori della University of Tennessee, di Knoxville
negli Usa. Gli studiosi hanno messo a punto un test diagnostico,
chiamato CST (Computerized Self Test), in grado di individuare
precocemente la presenza del morbo di Alzheimer e di altre forme
di deterioramento cognitivo. Nel corso della ricerca, gli esperti
hanno constatato che la precisione del CST nel diagnosticare
tali disturbi raggiunge il 96%, motivo per il quale risulta
piu' efficace degli altri test attualmente in uso - che sono
risultati precisi soltanto al 71% e al 69%. ''La diagnosi precoce
rappresenta uno dei fronti piu' importanti per la ricerca sull'Alzheimer
- spiega Rex Cannon, ricercatore della University of Tennessee
-. L'applicazione di strumenti come il CST risulta pertanto
di estrema importanza nel settore delle cure primarie''. |
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15/03/2010
DUE 65ENNI FARANNO 15 MILA KM IN BICI PER TROVARE FONDI |
(AGI) – Macerata, 11 mar.- Percorreranno
ben 15 mila chilometri in tandem, per raccogliere fondi da destinare
alla cura contro l’Alzheimer. Sono due 65enni di Macerata,
Aldo Angeletti e Cosimo D’Ettorre, che il 15 marzo partiranno
in un “viaggio per la vita” della durata di sette
mesi, che attraversera’ Francia, Spagna, Portogallo, Belgio,
Olanda, Germania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Austria
e Slovenia. I due vogliono sensibilizzare tutti i cittadini
europei, ma anche i loro governanti, sulla ricerca sul morbo
di Alzheimer, e nel lungo cammino raccoglieranno contributi
in favore dell’associazione onlus milanese “Cuore
fratello” che opera con bambini che non possono essere
curati nei paesi d’origine. Angeletti e D’Ettore,
non nuovi a imprese del genere, hanno ottenuto il patrocinio
all’assessorato ai Servizi sociali del Comune di Macerata,
e partiranno il 15 marzo da Monte Sant’Angelo (Foggia)
con un particolare veicolo, formato da un tandem, un carretto
e un cartello esposto in varie lingue che vuole informare sui
rischi derivanti dalla terribile malattia. Tra le tappe del
“viaggio per la vita”, oltre Macerata, dove saranno
il 21 marzo, sono previste Roma (Citta’ del Vaticano),
Lourdes e Fatima. (AGI) Cli/An/Eli
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11/03/2010
E se Google combattesse l'Alzeimer |
Fare ricerche in rete allena il cervello e aiuta a prevenire
il rischio Alzheimer. Lo rivela uno studio pubblicato su The
Journal of Geriatric Psychiatry. A beneficiarne maggiormente
sarebbero gli[...]
Fare ricerche in rete allena il cervello e
aiuta a prevenire il rischio Alzheimer. Lo rivela uno studio
pubblicato su The Journal of Geriatric Psychiatry. A beneficiarne
maggiormente sarebbero gli anziani. L’utilizzo dei motori
di ricerca sarebbe un’attivita’ in grado di attivare
le aree che controllano le decisioni complesse in maniera ben
piu’ incisiva di quanto possa stimolare la lettura di
un libro. In pratica, il cervello verrebbe sottoposto ad un
“allenamento” profondo ogni qualvolta si pongono
dei quesiti e si ricevono delle risposte utilizzando i search
engine. I risultati si basano sull’indagine eseguita da
una squadra di ricercatori dell’universita’ californiana
Ucla su 24 persone con un’eta’ compresa fra i 55
e i 76 anni. Due sono gli esperimenti ai quali sono stati sottoposti:
nel primo erano invitati a leggere un libro, nel secondo dovevano,
appunto, fare delle ricerche su internet. Durante entrambe le
attivita’, i cervelli sono stati monitorati tramite la
risonanza magnetica. Il risultato? Sia leggendo, sia navigando
vengono stimolate le medesime regioni cerebrali, cioe’
quelle responsabili del controllo del linguaggio, della memoria
e della visione, ma l’uso dei motori di ricerca riesce
ad attivare anche quelle aree che sovrintendono alle decisioni
complesse. E questo e’, secondo gli studiosi, il segno
che in questo caso l’attenzione e’ piu’ sollecitata.
Naturalmente, da qui a dire che Google possa aiutare a combattere
l’Alzheimer sembra, per ora, impossibile…
fonte |
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08/03/2010
Alzheimer, l’antidoto è uno scopo nella vita |
Secondo uno studio americano, la malattia è
meno diffusa tra chi ha un atteggiamento positivo verso il futuro
Le persone che hanno uno scopo nella vita e
un atteggiamento positivo verso il futuro hanno meno probabilità
di sviluppare la malattia dell’Alzheimer e il suo precursore,
il deficit cognitivo lieve. E’ quanto emerge da una ricerca
realizzata al Rush University Medical Center di Chicago e pubblicata
sulla rivista Archives of General Psychiatry. Secondo i risultati
dello studio, condotto su 951 anziani ospitati presso strutture
dedicate a Chicago e dintorni, la tendenza ad avere scopi e
progetti aumenta di circa 2,4 volte le probabilità di
non ammalarsi di Alzheimer. Allo stesso modo, è stato
osservato che simili atteggiamenti hanno effetti positivi nel
rallentare i normali processi di declino delle funzioni cognitive.
“L’Alzheimer è una delle
conseguenze più temute dell’invecchiamento”,
ha spiegato Patricia A. Boyle, autrice dello studio insieme
ad altri ricercatori del Rush University Medical Center. “L’identificazione
di fattori modificabili associati al rischio di questa malattia
rappresenta una priorità per la sanità pubblica
del ventunesimo secolo, soprattutto se si considera il rapido
e diffuso invecchiamento della popolazione”, ha continuato
la ricercatrice.
I ricercatori hanno messo in relazione il grado
di progettualità degli anziani con le probabilità
di sviluppare l’Alzheimer. “Con la dicitura purpose
in life (letteralmente “scopo nella vita”) ci si
riferisce alla tendenza a trovare un significato nelle esperienze
e a possedere un senso di intenzionalità e direzione
che guidi il comportamento”, hanno spiegato gli autori.
Per misurare questa variabile sono state sottoposte ai partecipanti,
nell’ambito del Rush Memory and Aging Project, dieci affermazioni
del tipo: “Mi sento bene quando penso a quello che ho
fatto in passato e a ciò che spero di fare in futuro”,
“Ho un senso della direzione e degli scopi nella vita”,
o ancora “Mi piace fare piani per il futuro e lavorare
per trasformarli in realtà”. A tutti quindi stato
chiesto di esprimere quanto concordavano con ogni frase in una
scala da uno a cinque.
Successivamente i partecipanti allo studio
sono stati seguiti per diversi anni. Dei 951 anziani coinvolti
nello studio, dopo sette anni 155 erano malati di Alzheimer
e tra questi la maggior parte aveva riportato un basso punteggio
nel test sulla progettualità. La stessa correlazione
è stata riscontrata nei pazienti che avevano sviluppato
un deficit cognitivo lieve.
Secondo gli autori, la scoperta avrebbe implicazioni
importanti per la salute pubblica. “Questi risultati possono
aprire nuovi orizzonti di intervento per favorire la salute
e il benessere tra le persone anziane”, ha commentato
Boyle. “Avere uno scopo nella vita, infatti, è
un fattore potenzialmente modificabile: gli anziani possono
essere aiutati a identificare attività significative
e a impegnarsi in comportamenti finalizzati al raggiungimento
degli obiettivi”. (g.b.)
Riferimenti: Archives of General Psychiatry |
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07/03/2010
scoperta nei topi malattia sosia Alzheimer |
Le
stesse proteine responsabili della malattia della mucca pazza,
i prioni, causano una malattia molto simile al morbo di Alzheimer,
la forma più diffusa di demenza senile.
La nuova malattia è stata osservata
nei topi, ma per i ricercatori dei National Health Institutes
(Nih) degli Stati Uniti la scoperta potrebbe portare a nuove
terapie per curare l’Alzheimer nell’uomo. La ricerca,
pubblicata sulla rivista PLoS Pathogens, è stata coordinata
da Bruce Chesebro, dell’Istituto statunitense per le allergie
e le malattie infettive (Niaid) che fa capo all’Nih.
Il risultato è stato ottenuto per caso,
mentre i ricercatori studiavano il modo in cui le malattie da
prioni distruggono il cervello nei topi: anziché la degenerazione
tipica delle malattie da prioni che rende il tessuto cerebrale
simile a una spugna, i ricercatori hanno visto lesioni analoghe
a quelle provocate dalla malattia di Alzheimer, con la formazione
di depositi di sostanza amiloide nei vasi sanguigni cerebrali.
La scommessa, adesso è trovare una sostanza
capace di inibire la nuova forma di malattia da prioni. Questo
significherebbe avere una nuova arma potenzialmente capace di
ridurre i danni provocati dall’Alzheimer.
fonte |
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24/02/2010
Spagna, in Andalusia la legge sulla morte degna e senza dolore
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Questa norma permetterà che i pazienti
con infermità degenerative, in stato vegetativo e in
avanzato Alzheimer possano rifiutare l’accanimento terapeutico.
Il parlamento andaluso approverà a breve la legge della
Morte Degna, la prima in Spagna che impedirà l'obiezione
di coscienza ai medici e che amplierà la definizione
di malattia terminale e di agonia. Il testo parlerà specificamente
di persone con infermità gravi irreversibili, come richiesto
dall'associazione Diritto a Morire Degnamente (DMD). La legge,
specifica il presidente di DMD, permetterà che pazienti
con infermità degenerative, in stato vegetativo, finanche
i malati di Alzheimer avanzato, possano rifiutare gli accanimenti
terapeutici, come l'alimentazione tramite sonda o qualunque
supporto vitale. La legge sarà vincolante per tutti i
centri medici, inclusi quelli religiosi, senza permettere alcun
margine di dubbio. La legge dovrebbe colmare un vuoto per cui,
in molti casi, la fase terminale del paziente dipende dal medico.
Secondo esponenti del partito dell'Unione Istituzionale "l'approvazione
della legge è una stupenda opportunità per dimostrare
che la servitù alle gerarchie ecclesiastiche è
parte del passato, promulgando una legge che sviluppa il diritto
sociale e del cittadino, come contemplato dallo statuto andaluso".
fonte |
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15/02/2010
Farmaco anti-Alzheimer efficace contro la corea di Huntington
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Latrepirdina, un farmaco sperimentale in fase
di sviluppo per la cura della malattia di Alzheimer, è
in grado di migliorare le capacità cognitive di pazienti
affetti da corea di Huntington rispetto al placebo. Lo dimostra
uno studio multicentrico, appena pubblicato su Archives of Neurology,
inteso a valutare sicurezza, tollerabilità ed efficacia
della molecola.
Il risultato è incoraggiante perché
al momento non ci sono trattamenti disponibili per gli effetti
psicologici della malattia e gli autori hanno detto di aver
scelto questo farmaco proprio perché sembrava avere un
impatto sia sulle funzioni cognitive sia sull'invecchiamento.
"La corea di Huntington viene pensata
solitamente come un disturbo del movimento, ma i problemi cognitivi
e comportamentali della malattia sono altrettanto, se non più
importanti di quelli motori" ha ricordato il coordinatore
dello studio Karl Kieburtz, dell'Università di Rochester.
Lo studio, randomizzato, in doppio cieco e
controllato con placebo, ha coinvolto 91 soggetti affetti da
corea di Huntington moderata-severa, arruolati in 17 centro
inglesi e statunitensi tra il luglio 2007 e il luglio 2008.
I pazienti sono stati trattati con latrepirdina tre volte al
giorno per 90 giorni o placebo.
I risultati hanno dimostrato che i pazienti in terapia attiva,
a differenza dei controlli, hanno ottenuto un miglioramento
dei punteggi dei test utilizzati per valutare le capacità
di pensiero, apprendimento e memorizzazione.
Secondo i ricercatori, latrepirdina sembra
stabilizzare e migliorare il funzionamento delle cellule cerebrali
danneggiate dalla malattia. E' possibile che la molecola agisca
sui mitocondri, gli organelli cellulari produttori di energia,
che possiedono un proprio DNA, distinto da quello della cellula
ospite.
Il farmaco si è rivelato anche sicuro e ben tollerato,
con effetti collaterali minimi, tra cui cefalea e vertigini.
Ora i ricercatori stanno effettuando un altro
studio di follow-up su 350 pazienti, della durata di 6 mesi,
per vedere si i risultati iniziali saranno confermati.
Latrepirdina è attualmente oggetto di sviluppo per il
trattamento della malattia di Alzheimer da parte della biotech
californiana Madivation in collaborazione con Pfize. Il farmaco
è stato commercializzato per la prima volta in Russia
come antistaminico.
Ora le due aziende contano di iniziare presto
le sperimentazioni anche su alcuni analoghi del farmaco che
potrebbero trovare impiego in una varietà di malattie
tra cui Parkinson, ictus e scompenso cardiaco.
Studio pubblicato su Archives of Neurology
http://archneur.ama-assn.org/cgi/content/short/67/2/154?home |
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01/02/2010
A Forlì 60 Anziani colpiti da Alzheimer ai Tavoli Elettrici
per migliorare la memoria |
Per
tenere a bada l’Alzheimer gli anziani si danno ai videogiochi.
Mondi lontanissimi, quelli della terza età e dei games
elettronici: ma a Forlì si incontrano con l’avvio
del progetto “Sociable”, cofinanziato dall’Unione
europea, che cerca nuove strade per allenare la memoria a breve
– quella più colpita dalla malattia – nelle
persone con Alzheimer. Così 60 forlivesi di età
media sui 75 anni, seguiti dal Centro esperto per la memoria
dell’Unità geriatria dell’Ausl, cominceranno
nei prossimi mesi a giocare. Non certo ad “Assassins Creed”
o all’ultima novità della Playstation, ma con due
tavoli elettronici “touch screen” progettati apposta
per attività di gruppo, come ad esempio riconoscere e
abbinare colori, oppure associare immagini, elementi e forme
geometriche diverse. Tutto per tenere “sveglio”
il cervello e contrastare l’invecchiamento mentale e la
demenza senile.
Il progetto è europeo, nell’ambito
del programma Ue “Ict per invecchiare bene”, e oltre
a Forlì coinvolge altre città in Spagna, Grecia
e Norvegia: 300 in tutto le persone selezionate. L’attività
di gioco non sarà imposta “dall’alto”
agli anziani in cura, come spiega il medico Giulio Cirillo,
referente scientifico di “Sociable”: “Abbiamo
prima sentito le 60 persone coinvolte. Il 75% si è detto
disponibile, e anzi entusiasta di partecipare a un programma
di stimolazione mentale mediante nuove tecnologie”. Questo
anche se le persone intervistate, come era da attendersi, hanno
dichiarato scarsa confidenza con l’uso di pc e strumenti
informatici, e solo il 15% ha dimestichezza con il cellulare.
“In questi giorni – dice Cirillo – un gruppo
tecnologico sta discutendo su come progettare al meglio le apparecchiature
di gioco. Bisognerà prevedere strumenti semplici, tarando
giochi e test su diversi livelli di difficoltà”.
A Forlì dovrebbero arrivare due tavoli
“touch screen” fissi per giochi collettivi, uno
da destinare all’ospedale e l’altro a un centro
sociale del Comune, più altri supporti individuali. “Il
gioco di gruppo – osserva Cirillo – favorisce l’interazione
tra i pazienti, che è uno dei punti critici segnalati
dall’indagine: il 68% degli intervistati ha relazioni
solo con i familiari, appena il 15% anche con amici e vicini
di casa. Facendoli giocare valuteremo i progressi nella capacità
di esecuzione e reazione ai test, ma anche i miglioramenti dal
punto di vista della socialità”. Il progetto “Sociable”
vede coinvolti Comune, Ausl di Forlì e l’azienda
Cedaf.
FONTE:
SuperAbile.it |
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08/01/2010
Un cocktail di nutrienti per combattere l'Alzheimer |
edizione italiana di "Scientific American"
Nel modello animale, la miscela ha dimostrato di poter favorire
l'incremento del numero di spine dendritiche, che formano
una sinapsi quando contattano un altro neurone
Negli stadi precoci della malattia di Alzheimer, i pazienti
tipicamente subiscono una consistente perdita delle connessioni
neuronali necessarie per la memoria e l’elaborazione
delle informazioni.
Ora una combinazione di nutrienti sviluppata dal MIT ha mostrato
la potenzialità di migliorare la memoria nei pazienti
affetti dalla patologia, grazie alla stimolazione della crescita
di nuove sinapsi.
"Se si riuscisse effettivamente a incrementare il numero
di sinapsi aumentandone la produzione, si potrebbe evitare
in qualche misura la perdita di capacità cognitive”,
ha spiegato Richard Wurtman, neuroscienziato del MIT che firma
un articolo di resoconto sulla ricerca sull’ultimo numero
della rivista Alzheimer's and Dementia.
Com’è noto, attualmente non esiste alcuna cura
per l’Alzheimer, sebbene alcuni farmaci, come gli inibitori
della colinesterasi, che aumentano i livelli di acetilcolina
– un neurotrasmettitore importante per l’apprendimento
e la memoria – possano rallentarne la progressione.
L’idea di partenza di è stata invece quella
di aggredire la causa primaria della malattia, le sinapsi.
I ricercatori hanno così elaborato un cocktail dietetico
di tre sostanze: uridina, colina e DHA, tutte presenti nel
latte materno, insieme con vitamina B, fosfolipidi e antiossidanti.
Nello studio sul modello animale, infatti, Wurtman ha mostrato
che questi nutrienti incrementano il numero di spine dendritiche,
che formano una sinapsi quando contattano un altro neurone.
Nello studio clinico successivo, effettuato su 225 pazienti
con una forma lieve di Alzheimer, è stato fato loro
assumere il cocktail o un placebo per 12 settimane. Rispetto
al controllo, i soggetti trattati hanno dimostrato un significativo
miglioramento nei test di memoria verbale basati sulla Wechsler
Memory Scale, con risultati migliori nei casi meno gravi della
patologia.
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06/01/2010
Uso Cellulari Previene e Fa Regredire Malattia
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WASHINGTON - Le onde elettromagnetiche dei telefonini non
solo non fanno male ma proteggono dall'Alzheimer e possono
far regredire la malattia. I ricercatori della University
of South Florida hanno esposto 96 topi (molti geneticamente
modificati per sviluppare l'Alzheimer) alle onde dei cellulari
per un'ora, 2 volte al giorno, per 7/9 mesi. Nei topi malati
l'esposizione ha fatto sparire i depositi nel cervello di
beta-amiloide, la proteina killer dei neuroni, e ha fatto
scomparire i sintomi della demenza. In quelli sani la memoria
è stata addirittura potenziata
Corriere della sera
MILANO - Il telefonino protegge dall'Alzheimer? Secondo uno
studio americano pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease,
le onde elettromagnetiche generate dai cellulari potrebbero
avere, alla lunga, un effetto «scudo» contro la
demenza senile. Va detto che la ricerca degli scienziati del
Florida Alzheimer's Disease Research Centre è stata
condotta sui topi, quindi da prendere con le dovute cautele.
Gli autori, infatti, invitano alla prudenza: serviranno sicuramente
molte verifiche per accertare, con ulteriori ricerche, gli
eventuali benefici delle radiazioni emesse dai cellulari,
più volte, invece, sospettati di possibili danni alla
salute.
LO STUDIO - Nello studio sono stati utilizzati 96 topi, la
maggior parte dei quali geneticamente modificati in modo da
sviluppare nel cervello, invecchiando, le placche beta-amiloidi
caratteristiche dell'Alzheimer. Tutti gli animali, sia quelli
«malati» sia quelli normali, che servivano come
gruppo di confronto, sono stati esposti a un campo elettromagnetico
prodotto da un comune telefono cellulare: due «sedute»
da un'ora al giorno, per 7-9 mesi. Tutte le gabbiette in cui
si trovavano le cavie sono state sistemate alla stessa distanza
dalla fonte di radiazioni. Il team guidato da Gary Arendash
ha osservato che, se l'esposizione alle onde iniziava quando
i topi «malati di Alzheimer erano ancora dei giovani
adulti, quindi prima che mostrassero segni di perdita di memoria,
le capacità cognitive dei roditori risultavano protette.
Se invece l'esposizione alle radiazioni del telefonino riguardava
topi anziani, con problemi di memoria già evidenti,
i loro deficit mnemonici scomparivano. Buone notizie anche
dall'esame delle autopsie eseguite sui roditori post-mortem:
gli animali «trattati» con onde elettromagnetiche
non presentavano anomalie nè al cervello nè
agli organi periferici.
SORPRESA - Il più sorpreso dai risultati dello studio
è stato proprio l'autore della ricerca, il professore
Gary Arendash: «Francamente ho iniziato questo lavoro
alcuni anni fa convinto che i campi elettromagnetici dei cellulari
potessero peggiorare l'Alzheimer» mentre invece è
successo il contrario «e abbiamo verificato effetti
benefici sia sui topi affetti da Alzheimer che su quelli sani».
MODELLO SPERIMENTALE - «Per valutare correttamente
questo studio bisogna innanzitutto considerare il tipo di
modello sperimentale utilizzato» commenta il professor
Giancarlo Comi, direttore dell'Istituto di neurologia dell'Università
Vita e Salute-san Raffaele, di Milano, e presidente eletto
della Società Italiana di Neurologia. «Da quanto
risulta al momento sembrerebbe che i topi "malati di
Alzheimer" fossero in realtà "solo"
topi in cui è stata indotta la formazione di placche
beta-amiloidi, che sono certamente un fattore molto importante
nel condizionare i disturbi dell'Alzheimer, ma non sono l'unico
implicato nella malattia». «Il fatto che distruggendo
le placche beta-amiloidi si consegua una riduzione del deficit
di memoria è un risultato atteso e ben noto, infatti
è stato ottenuto già con altri metodi da parecchio
tempo. L'elemento di notevole novità che sembra portare
lo studio americano appare in effetti il modo in cui si è
arrivati a questo risultato, cioè con campi elettromagnetici
a bassa frequenza. Da qui a dire che il telefonino può
essere uno scudo per l'Alzheimer c'è però una
notevole differenza, anche perchè bisognerebbe valutare
con attenzione il tipo di dose usata, la distanza, il tempo
e poi fare le dovute proporzioni con l'uomo» «Ora
si dovrebbe stabilire con uno studio epidemiologico ad hoc
se in chi usa da tempo questi apparecchi telefonici mobili
ci sia un effettiva riduzione di incidenza della demenza senile.
Fino ad allora bisogna usare molta prudenza, anche perchè
i telefonino sono spesso stati associati anche a potenziali
effetti nocivi se utilizzati in modo protratto».
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09/05/2009
Cavie digitali per i farmaci contro
Alzheimer e morbo di Parkinson |
MADRID – Il procedimento si ispira a quello dei simulatori
di volo: un cervello digitale manifesta i sintomi di alcune
patologie gravi, come l’Alzheimer o il Morbo di Parkinson,
e i ricercatori gli «somministrano» i medicinali
di nuova creazione studiandone gli effetti sul monitor. La
possibilità, affascinante soprattutto per le cavie
in carne e ossa, attualmente in servizio nei laboratori farmaceutici,
non è poi così aleatoria, se continueranno a
progredire il lavoro dell’équipe internazionale
intorno a «Blue Brain», il primo e più
avanzato studio per la ricostruzione artificiale della struttura
cerebrale di un mammifero e delle sue reazioni. «Ci
permetterà di condurre centinaia di migliaia di esperimenti
senza mettere a repentaglio i malati» si entusiasma
il coordinatore, lo spagnolo José Maria Peña,
docente alla facoltà di informatica dell’Università
Politecnica di Madrid. Intervistato dal quotidiano Abc, il
cattedratico è convinto che il progetto apra la strada
a una sperimentazione totalmente innovativa e dalle potenzialità
quasi sconfinate: sarà possibile provare «tutti
gli scenari clinici» e nuove strade per la cura di malattie
neurodegenerative, tumori, schizofrenia, autismo.
UN PROGETTO PARTITO NEL 2005 - L’impresa
è a buon punto, ma ancora abbastanza lontana dalla meta.
Attualmente è stata ricostruita una piccola parte del
cervello con risultati ritenuti «soddisfacenti»
e l’intera neocorteccia cerebrale dovrebbe essere pronta
entro il 2010. Il progetto «Blue Brain» risale al
2005, per iniziativa della Scuola Politecnica di Losanna e dell’Ibm
La «cavia digitale», secondo i suoi creatori, si
trasformerà in uno strumento informatico indispensabile
alla ricerca medica e fornirà risposte anche a molti
dei grandi enigmi dei neuro-scienziati sul funzionamento del
cervello umano, sulle sue differenze o similitudini con quello
di altri mammiferi. Si presenta, su scala mondiale, come il
primo tentativo di «ingegneria inversa» (che ricava
informazioni partendo da un prodotto finito e smontandone i
componenti) applicata al cervello dei mammiferi.
corriere
della sera
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09/05/2009
«interruttore» chiave per la memoria |
MILANO - Topolini malati di Alzheimer sono stati curati grazie
alla scoperta di un enzima che funzionerebbe come «interruttore»
dei ricordi: i sintomi della demenza sono regrediti nei topolini
trattati con medicine sperimentali che disattivano questa proteina.
L'enzima in questione si chiama HDAC2, ha spiegato Li-Huei Tsai
del Massachusetts Institute of Technology di Boston, e presiede
all'attività (espressione) di alcuni geni legati alla
plasticità cerebrale. Se l'enzima viene «spento»
i geni «lavorano» di più e creano le condizioni
per la formazione di nuovi fra le cellule nervose indispensabili
per apprendimento e memoria. E infatti nella sperimentazione
condotta dagli scienziati del Mit i sintomi dell'Alzheimer nei
topolini trattati con questi farmaci sono regrediti e la loro
memoria è risultata potenziata., come spiegato sulla
rivista Nature.
PROSPETTIVE - Poichè molti farmaci inibitori degli
enzimi HDAC sono già in uso come farmaci contro i tumori
e poiché altri farmaci di questo tipo sono in via di
sperimentazione per altre malattie anche del cervello, essi
si potrebbero rivelare utili anche per l'Alzheimer in tempi
relativamente brevi.
corriere
della sera
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12/03/2009
Una proteina blocca l'Alzheimer
La scoperta in una ricerca a Milano |
La risposta alla malattia potrebbe nascondersi nella sostanza
stessa che lo scatena: la beta-proteina, che aggregandosi
forma depositi impossibili da smaltire (placche amiloidi),
killer dei neuroni. Questi i risultati di una ricerca che
ha visto la collaborazione di diversi istituti meneghini
Milano, 12 marzo 2009 - La risposta all’Alzheimer potrebbe
nascondersi nella sostanza stessa che lo scatena: la beta-proteina,
che aggregandosi forma depositi impossibili da smaltire (placche
amiloidi), killer dei neuroni. Una sua forma mutata, identificata
grazie a uno studio "made in Milano" che si è
guadagnato i riflettori di "Science", può
infatti rappresentare uno scudo contro la malattia.
Da trasformare in futuro in un farmaco per bloccare sul nascere
l’Alzheimer in tutte le sue forme, compresa quella familiare
che attacca il cervello anche da giovani. Già a 40
anni o perfino a 30.
La speranza di uno "scacco matto" al morbo che colpisce
oggi circa mezzo milione di italiani, 6 milioni di europei
e 5 milioni di americani - numeri destinati a raddoppiare
entro il 2050 per l’invecchiamento inesorabile della
popolazione - arriva da una ricerca guidata dagli scienziati
della Fondazione Istituto neurologico Carlo Besta e dell’Istituto
farmacologico Mario Negri di Milano, con la collaborazione
di colleghi dell’università degli Studi meneghina,
del Centro Sant’Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco
sul Naviglio e del Nathan Kline Institute di Orangeburg (New
York, Usa).
Un "colpo di intuito", spiega il direttore del Dipartimento
di malattie neurodegenerative del Besta, Fabrizio Tagliavini,
che ha spinto gli studiosi ad approfondire lo strano caso
di un 36enne colpito da Alzheimer precoce e aggressivo senza
avere apparentemente alcuna familiarità per la patologia.
Il team milanese ha così scoperto una nuova variante
di beta-proteina mutata, che se è presente in doppia
copia (codificata da entrambi gli alleli del gene corrispondente,
condizione detta in gergo tecnico omozigosi) scatena l’Alzheimer
in forma grave, rivelandosi invece protettiva se presente
in singola copia (eterozigosi).
In questo caso, precisa Tagliavini, "la beta-proteina
mutata si lega a quella normale e blocca la formazione di
amiloide e lo sviluppo della malattia. Un comportamento biologico
sorprendente", che "apre una nuova prospettiva terapeutica"
sia per le forme genetiche (3%) che per quelle sporadiche
(non familiari, 97%) di Alzheimer.
Una speranza di cura "basata sull’uso di frammenti
proteici contenenti questa mutazione o di composti peptido-mimetici",
puntualizza Mario Salmona, direttore del Dipartimento di biochimica
molecolare e farmacologia dell’Istituto Mario Negri.
Medicinali efficaci "senza effetti collaterali",
sottolinea Tagliavini.
"Galeotte" le indagini su un paziente 36enne e la
sua famiglia. "Tutto è partito dal caso di un
paziente di 36 anni, con una forma di demenza molto aggressiva
pur senza presentare in apparenza alcuna familiarità
per la malattia di Alzheimer", racconta Tagliavini. "Nonostante
questo, abbiamo deciso di eseguire delle indagini genetiche
- continua - e abbiamo scoperto la nuova mutazione presente
in omozigosi".
Non solo. "Riproducendo in laboratorio la nuova beta-proteina
individuata, abbiamo visto che si trattava di una mutazione
molto aggressiva - aggiunge lo scienziato - e allora ci siamo
chiesti perchè non si fossero ammalati anche quei parenti
del nostro giovane paziente che presentavano la mutazione
in eterozigosi". Infatti, ricorda Tagliavini, "per
tutte le mutazioni note prima d’ora bastava che l’alterazione
fosse presente su un singolo allele del gene per scatenare
l’Alzheimer in forma grave".
Ebbene, passando in rassegna tutti i componenti della famiglia
dell’under 40 malato - sulla quale gli studiosi mantengono
il più stretto riserbo per ragioni di privacy - il
team milanese ha scoperto "molti membri eterozigoti,
eppure perfettamente sani". Compresa un’anziana
signora arrivata alle soglie dei 90 anni «con una memoria
di ferro», che per ironia della sorte assisteva un marito
malato di Alzheimer.
Alla luce di questa osservazione, "un caso praticamente
unico in letteratura", Tagliavini e colleghi hanno quindi
provato a "mettere insieme in provetta la beta-proteina
normale e quella mutata", notando che "l’interazione
blocca la "cascata amiloide" chiave nella malattia".
In altre parole, la beta-proteina mutata impedisce a quella
normale di cambiare forma e di aggregarsi formando la placca
amiloide.
La marcia dell’Alzheimer viene insomma arrestata, e
la speranza degli esperti è quella di tradurre la loro
scoperta in medicinali da somministrare un giorno ai pazienti
ad alto rischio di Alzheimer.
http://ilgiorno.ilsole24ore.com/milano/2009/03/12/157645-proteina_blocca_alzheimer.shtml
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09/03/2009
Alla base dell'Alzheimer amiloide e prioni |
La degenerazione dei neuroni causata dall'Alzheimer potrebbe
dipendere dal legame tra proteina amiloide e forme mutate
di proteine prioniche Placche nel cervello per Alzheimer
Su Nature Stephen Strittmatter della Yale University School
of Medicine di New Haven spiega che solo l'interazione tra
proteine prioniche e frammenti di beta amiloide, le proteine
che si accumulano nel cervello di chi è colpito dalla
malattia, produrrebbe un danno neuronale.
Le cause della malattia non sono chiarite ma è noto
che nel cervello si accumulano frammenti di proteina beta-amiloide
che causano la morte dei neuroni, provocando nei pazienti
deficit di memoria sempre più gravi, oltre ad un peggioramento
graduale del ragionamento, del linguaggio, fino ad arrivare
ad una compromissione dell'autonomia funzionale e della capacità
di svolgere le normali attività quotidiane.
Il professor Strittmatter chiarisce che "Sapevamo che
la beta-amiloide è dannosa per il cervello, ma non
in che modo ciò accadesse".
Ora professore e colleghi ritengono di aver compreso il meccanismo
con cui si attiva la degenerazione dei neuroni: i frammenti
di beta-amiloide si legano a proteine prioniche, che sono
normalmente innocue ed esistono in diverse cellule, ma in
alcuni rari casi mutano, causando malattie come il morbo della
mucca pazza o la malattia di Creutzfeldt-Jacob.
Quando i peptidi beta-amiloide si legano alle
proteine prioniche cellulari si manifestano i danni alle cellule
nel cervello.
Il professor Fabrizio Tagliavini, direttore del dipartimento
di malattie neuro degenerative dell'Istituto Carlo Besta di
Milano, esperto della malattia commenta "E' una scoperta
interessante" e prosegue "Negli ultimi anni si è
scoperto che il danno nell'Alzheimer è dovuto non tanto
alla forma finale degli amiloidi - le aggregazioni proteiche
considerate le principali responsabili della patologia - ma
alle forme iniziali di aggregazione, più piccole, chiamate
oligomeri. Queste formazioni tossiche danneggiano le cellule
nervose in modo grave, alterano le sinapsi e processi di base
della memoria" e conclude Questo lavoro ora indica che
la proteina prionica cellulare funziona da recettore per questi
oligomeri, ed è un punto centrale del processo di neuro
tossicità. E suggerisce così un nuovo target per
potenziali terapie"
L'Alzheimer è la forma più diffusa di demenza
senile e, come spiega Gabriella Salvini Porro, presidente della
Federazione Alzheimer Italia, "Rappresenta una delle maggiori
sfide sanitarie e sociali del nostro tempo e oggi i malati sono
24 milioni in tutto il mondo, 500mila in Italia, e nei prossimi
vent'anni si stima che raddoppieranno". La Federazione
Alzheimer Italia è la maggiore organizzazione nazionale
no profit dedicata alla promozione della ricerca medica e scientifica
sulle cause e la cura della malattia, al supporto e sostegno
dei malati e dei loro familiari e alla tutela dei loro diritti.
Redazione
MolecularLab.it (09/03/2009) |
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12 gennaio 2009
le ultime scoperte dei ricercatori su Alzheimer e tumore al
seno |
L’Alzheimer
colpisce più le donne degli uomini e la colpa starebbe
nel corredo genetico femminile. Secondo uno studio del Mayo
Clinic College di medicina, pubblicato sulla rivista Nature
genetics, a esporre le donne a un rischio maggiore di sviluppare
questa malattia sarebbe la variante chiave di un gene presente
nel cromosoma X, presente in doppia coppia nel sesso femminile
e in una sola in quello maschile. I ricercatori hanno identificato
infatti una particolare variante del gene PCDH11X, che sembra
essere collegata a un alto rischio di ammalarsi di questa patologia.
Gli studiosi hanno rilevato che l’aumento del rischio
non era statisticamente rilevante negli uomini che presentavano
una copia sola della variante genetica in questione, così’
come nelle donne che ne avevano una sola copia. Le cose cambiano
invece, e di conseguenza il rischio sale, nelle donne con due
copie del gene, ognuna delle quali ereditata da ciascun genitore.
Il PCDH11X controlla la produzione di una proteina, la protocaderina,
che fa parte di una famiglia di molecole che aiuta le cellule
del sistema nervoso centrale a comunicare tra loro. Secondo
alcuni studi la protocaderina può essere spezzata da
un enzima collegato ad alcune forme di Alzheimer. “E’
molto interessante aver scoperto un nuovo gene collegato alla
malattia, il primo ad avere un effetto specifico sul sesso -
spiega Steven Youkin, coordinatore dello studio - E’ probabile
che molti geni contribuiscano al rischio di sviluppare questa
patologia, anche se l’età resta il fattore più
significativo”.
Nuove scoperte sono state fatte anche per quel
che riguarda il rischio di sviluppare il cancro al seno. In
questo caso non di genetica si tratta ma di zuccheri. Un alto
livello di insulina (ormone prodotto dal pancreas quando il
livello di glucosio nel sangue è alto) nelle donne in
menopausa sarebbe infatti responsabile di un aumentato rischio
di sviluppare il cancro al seno. E’ quanto emerso da una
ricerca dell’Albert Einstein College of Medicine della
Yeshiva University pubblicata sul Journal of National Cancer
Institute. I ricercatori hanno selezionato nel 2004 un gruppo
di oltre 1600 donne in menopausa. Il gruppo individuato era
composto da 835 donne che avevano sviluppato il cancro al seno
nel corso della ricerca e da 816 donne scelte casualmente. I
ricercatori hanno valutato il loro livello di insulina, i livelli
di estradiolo e l’indice di massa corporea. Successivamente,
le donne sono state divise in quattro sottogruppi, in base al
livello di insulina riscontrato ed è emerso che quelle
con i più alti livelli di insulina avevano quasi il 50
per cento di probabilità in più di sviluppare
il cancro al seno. Il maggior numero di questi casi è
stato osservato nel sottogruppo che non aveva mai utilizzato
la terapia ormonale sostitutiva. “Quando abbiamo effettuato
i controlli per l’insulina - ha detto il professor Marc
Gunter, autore dello studio - l’associazione tra obesità
e cancro al seno è diventata molto più debole,
ciò significa che una larga parte della relazione obesità
e cancro potrebbe essere mediata dai livelli di insulina”.
http://blog.panorama.it/hitechescienza/2009/01/12/salute-rosa-le-ultime-scoperte-dei-ricercatori-su-alzheimer-e-tumore-al-seno/
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3 novembre 2008 - studio pubblicato sul
British Journal of Psychiatry |
Gli
inglesi la chiamano alcohol-related dementia, ovvero la demenza
collegata al consumo di alcolici che, se assunti in grande quantità,
contribuiscono sensibilmente a diminuire la massa cerebrale.
LO STUDIO - Una ricerca pubblicata sul British Journal of Psychiatry
e guidata dai due ricercatori Susham Gupta e James Warner sottolinea
ancora una volta il legame esistente tra alcool e demenza, diffondendo
numeri inquietanti a questo proposito. Nell’Alzheimer,
considerata la forma più comune di demenza, l’alcool
in quantità significativa è responsabile di un
decimo dei casi, e se il consumo è stato pesante la responsabilità
del bicchiere di troppo sale a un caso su quattro. Le lesioni
alle cellule e alle sinapsi provocate dagli alcolici sono note
da tempo, ma il rapporto direttamente proporzionale tra il vizio
del bere e la degenerazione cerebrale è ulteriormente
sottolineato dai dati di quest’ultima ricerca britannica.
DEMENZA DIFFUSA – Del resto le statistiche relative alla
demenza e all’etilismo, quantomeno in Gran Bretagna, vanno
a braccetto. Gli inglesi bevono sempre di più secondo
i dati e dal 1960 hanno raddoppiato il numero di bottiglie pro
capite all’anno, come fanno notare Gupta e Warner, secondo
i quali al fenomeno ha contribuito anche la discesa dei prezzi
nel settore. Allo stesso modo aumenta la demenza, classificata
ormai dai medici come una vera e propria epidemia. Susanne Sorensen,
che dirige il settore ricerca dell’Alzheimer's Society,
sostiene che tra le persone che muoiono oltre i 65 anni un terzo
soffre di una forma di demenza senile.
Corriere della Sera |
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29 ottobre 2008 - Scoperta nuova molecola
anti-Aids |
ROMA - Nuove speranze per combattere il virus dell'HIV, responsabile
dell'AIDS, arrivano da una piccola molecola scoperta da ricercatori
del Laboratorio di Virologia Molecolare diretto da Giovanni
Maga presso l'Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio
Nazionale delle Ricerche di Pavia (Igm-Cnr), in collaborazione
con il Laboratorio di Chimica Farmaceutica dell'Università
di Siena, diretto dal professor Maurizio Botta. Si tratta
di una molecola farmacologicamente attiva, in grado di bloccare
l'infezione poiché diretta contro un "enzima cellulare",
a differenza della terapia attuale che si basa invece su farmaci
diretti contro "enzimi virali": una via, questa,
che da qualche anno è stato dimostrato essere la più
efficiente contro la malattia.
segue
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21 ottobre 2008 - Nanoparticelle contro
il morbo di Alzheimer |
Il
progetto NAD prevede l'uso di nanoparticelle per la diagnosi
e la terapia della malattia di Alzheimer. Il 1 settembre scorso
è partito il Progetto NAD (Nanoparticles for therapy
and diagnosis of Alzheimer Disease), un progetto di ricerca
multidisciplinare con l'obiettivo di diagnosticare precocemente
e contrastare la malattia di Alzheimer. Il professor Massimo
Masserini è il responsabile scientifico del progetto,
professore ordinario di biochimica presso la Facoltà
di Medicina e Chirurgia e direttore del dipartimento di Medicina
Sperimentale.
segue |
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17 ottobre 2008 - allenamenti anti alzheimer |
Roma.
Partirà entro sei mesi il progetto italiano e unico al
mondo -"train the brain", attività ludiche
e fisiche per tenere allenato il cervello dei malati di alzheimer.
(fonte: metro) |
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17 ottobre 2008 - SOCIAL CARD |
Sembra che la social card verrà distribuita,
non si sa come, alle persone che abbiano superato i 65 anni
di età e che abbiano un reddito inferiore ai 6000 euro.
Sembra che sia una carta ricaricabile che nell’arco
di un anno venga ricaricata di 480 euro, spendibili in pagamento
bollette luce e gas o spendibile nei negozi che saranno convenzionati.
In ultimo sembra che la social card possa essere richiesta
anche dalle famiglie sempre con reddito inferiore ai 6000
euro e con un bimbo al di sotto dei 3 anni. A chi si debba
presentare autocertificazione attestante questo reddito non
è ancora chiaro.
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13 ottobre 2008 - scambio tra i ricercatori |
Durante la riunione del Consiglio Competitività
a Bruxelles il 25 e 26 settembre, i ministri europei della
ricerca hanno adottato delle conclusioni sul morbo di Alzheimer,
sul partenariato europeo per i ricercatori e sulla ricerca
responsabile nel campo delle nanotecnologie.
Alle malattie neurodegenerative,
e in particolare al morbo di Alzheimer, è stata data
alta priorità sotto la presidenza francese dell'UE.
Durante la riunione del consiglio, i ministri hanno firmato
un impegno di combattere queste malattie che sono destinate
a diventare sempre più diffuse con l'invecchiamento
della popolazione.
Nelle conclusioni, i ministri hanno raccomandato
il lancio di un'iniziativa europea per riunire tutte le parti
interessate, compresi gli Stati membri e la Commissione, allo
scopo di aumentare il numero dei ricercatori che lavorano
sull'Alzheimer e formare più specialisti, in modo da
ridurre l'impatto delle malattie neurodegenerative.
I ministri indicano che questa iniziativa
potrebbe essere "un buon esempio per testare modi innovativi
per mettere insieme esperienze e risorse nazionali su base
volontaria come parte degli obbiettivi congiunti dell'Europa".
Pensando a questo, il Consiglio invita gli Stati membri a
creare un forum che riunisca i protagonisti della ricerca
europea sull'Alzheimer e a valutare modi per favorire la collaborazione
tra gli Stati membri, ad esempio utilizzando progetti nell'ambito
del Settimo programma quadro (7°PQ).
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13 settembre 2008 - Scoperta cura
per l’Alzheimer |
Un
annuncio importante, quello del premio Nobel Rita Levi Montalcini,
che al Corriere della Sera ha parlato della nascita in laboratorio
di una molecola capace di sconfiggere il morbo di Alzheimer.
Già in precedenza, la Montalcini aveva individuato la
causa delle malattie di tipo degenerativo proprio nella carenza
di una molecola, la NGF. Ora, la notizia che ridà speranza
a molti ammalati e alle loro famiglie, è che questa molecola
può essere riprodotta artificialmente, ingegnerizzata
e ottimizzata al fine di adoperarla come terapia contro l’Alzheimer.
Questo metodo potrebbe risultare efficace nel sopperire al deficit
di NGF, alla base della diffusa malattia neurologica. -
in Medicina News, Nuove frontiere mediche. |
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©
alzalamente 2008 - 2010 |
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